Itinerari del mistero

Alla scoperta a Rivalta della confraternita dei Batù e della cappella del colera

Rivalta, tranquilla cittadina situata quasi alle porte di Torino, tra Rivoli e Orbassano, ha una storia piuttosto antica e anche se oggi è più che altro conosciuta per essere un polo industriale di notevole importanza, grazie ad enormi stabilimenti che si trovano sul suo territorio, come Fiat Avio, un tempo era considerata un centro rilevante.

Il castello di Ripalta, come veniva chiamata, appare in una donazione del 1029, quando Olderico Manfredi cede all’Abbazia di San Giusto di Susa il “castro e capella” ed è ancora visibile, anche se l’impianto medievale, tuttora esistente, è stato rimaneggiato più volte nei secoli e ha persino subito, nel 1176, un saccheggio da parte delle truppe del Barbarossa, che non avevano risparmiato neppure la cittadina. In particolare sul torrione si possono ammirare i mattoni a spina di pesce e i fregi in cotto, tipicamente piemontesi, che costituiscono una rarità; il castello è anche sede di numerosi eventi culturali e della biblioteca, che ospita 40.000 volumi, che si stagliano in una scenografica suggestiva che evoca il passato.

Il castello di Rivalta

Tra le interessanti bellezze di Rivalta c’è anche una cappella in stile romanico dedicata ai Santi Vittore e Corona, probabilmente costruita prima del 1047, anche il suo impianto medievale è stato modificato verso la fine del 1600, quando vennero aggiunte le cappelle laterali, il campanile e il portico d’ingresso. Nel 1833 fu utilizzata come lazzaretto per un’epidemia di colera e questa scelta purtroppo ha fatto sì che gli apprezzati affreschi interni fossero danneggiati, anche se il restauro conservativo del 2018 ha riportato alla luce quanto ancora esistente: il ciclo del culto di san Vittore e di san Corona, in quattordici riquadri di scuola jaqueriana e la decorazione dell’abside, un Cristo in mandorla di notevole bellezza, datato XIV secolo.

Un particolare della cappella dei Santi Vittore e Corona

Tornando all’interno della cittadina, è inevitabile il passaggio nei pressi della chiesa della Confraternita della Santa Croce o dei Batù, dedicata ai “battuti” o batù, in piemontese, una confraternita laica suddivisa in svariati gruppi che sin dal medioevo si sottoponevano a penitenze che spesso consistevano nell’autoflagellazione. Questi gruppi si occupavano altresì di accompagnare i defunti al cimitero, erano devoti alla Madonna e aiutavano nelle opere di beneficenza e assistenza ai malati. Fu nell’Ottocento che Napoleone soppresse la maggior parte delle confraternite, dette a seconda dei casi e della vocazione dei Neri, Bianchi, Grigi, Celesti e Verdi; a Rivalta la chiesa era stata costruita nel 1718 e la Confraternita, che ormai aveva da tempo perso la vocazione alla penitenza dolorosa, si era del tutto volta all’assistenza parrocchiale e ospedaliera.

La chiesa di Santa Croce

La chiesa di Santa Croce, situata in una piazzetta suggestiva, era stata posizionata sopra una precedente cappella dedicata a San Rocco, il santo protettore del morbo pestifero e contiene al suo interno una statua di Sant’Antonio abate, con il maialino e il bastone. Ricordiamo che il santo eremita è spesso raffigurato in questo modo poiché il demonio gli appariva sotto forma di porco e non solo, il grasso di maiale poteva curare l’ergotismo, l’intossicazione alimentare dovuta all’ergot, il fungo che poteva appestare alcune piante, tra le quali la segale, causando danni al cervello e agli arti, nonché agli organi interni. Si dà il caso che Sant’Antonio fosse considerato il protettore degli inferi, e spesso veniva rappresentato anche circondato dal fuoco, dando il nome alla malattia, che veniva appunto chiamata fuoco infernale o fuoco sacro. Nell’XI secolo un nobile francese si ammalò e fece un voto a Sant’Antonio, se lo avesse fatto guarire, avrebbe costituito un ordine e avrebbe curato i malati: e così fece, con otto amici fondò l’Ordine Ospedaliero di Sant’Antonio, che venne in seguito trasformato in una congregazione religiosa e si espanse in tutta Europa. E’ per questo che si possono trovare tutti questi riferimenti al santo in Piemonte, che tra l’altro è stato, con la sede di Sant’Antonio di Ranverso e con la “filiale” di Torino, uno dei principali centri di cura della malattia del fuoco di Sant’Antonio.

I Batù, che oggi sembrano parecchio strani, all’epoca erano quasi nella norma ed erano accettati come una normale forma di religiosità, così come avveniva in un altro movimento penitenziale, i flagellanti, forse più conosciuti anche grazie alle varie processioni che vengono ancora organizzate ad esempio in Umbria. Ma perché si facevano del male? L’atto di colpirsi e procurarsi del dolore era una forma utilizzata in molti ordini religiosi, come i camaldolesi, i francescani e i cluniacensi e aveva una duplice funzione: nella mortificazione del corpo si cercava il perdono di Dio e nello stesso tempo si attestava la propria colpa nel condurre una vita di peccato.

Uno scorcio di Rivalta

L’archivio di Santa Croce di Rivalta è andato perduto, ma proprio in questi anni sedici studiosi del luogo hanno scritto un libro intitolato “Santa Croce. La chiesa di Rivalta di Torino e la sua Confraternita”, dove hanno ricostruito la curiosa storia dei Battuti di Rivalta.

Testo di Katia Bernacci
Fotografie di Marino Olivieri

Katia Bernacci

Katia Bernacci, giornalista pubblicista, saggista e ricercatrice indipendente, è attualmente direttrice editoriale della casa editrice Yume. Da anni si occupa di divulgazione in ambito culturale.

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