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La “becana”, ovvero la bicicletta degli operai torinesi nel Novecento

Nei primi decenni del Novecento, e almeno fino ai primi anni del secondo Dopoguerra, i mezzi di trasporto con cui gli operai torinesi raggiungevano il loro posto di lavoro (nelle centinaia di bòite, fabbriche e officine sparse nei quartieri periferici della città) erano prevalentemente i seguenti:

a)ël nùmer doi”, ovvero il “numero due”: con questa espressione non ci si riferiva ad una linea di un tram, di un omnibus, o di un filobus, bensì alle due gambe di cui madre natura li aveva dotati;

b) la “becana”.

Svelato l’arcano del numero “due”, resta da rendere noto quello del punto b. Qualcuno dei nostri Lettori, soprattutto tra quelli più giovani, si chiederà infatti che cosa fosse la becana. E allora mi affretto a sciogliere immediatamente il mistero: la becana era – per tutti (o quasi tutti) gli operai del Novecento – la bicicletta.

Ma non solo. Di una becana si avvaleva quasi sempre ogni postino di quartiere, per distribuire ai destinatari lettere e cartoline postali, così come il messo comunale, molti corrieri, droghieri, farmacisti, macellai, ecc. Alcune becane venivano infatti adeguatamente modificate nella parte anteriore, per accogliere sotto il manubrio un sufficiente vano di carico, destinato al trasporto di merci varie (pane, fiori, frutta e ortaggi, ecc.) .

Chi aveva la fortuna di possedere una becana, e non era scontato che potessero concedersela tutti, la copriva di cure e di attenzioni come fosse un figlio. La puliva ogni giorno con un panno, ne oliava la catena, lustrava il campanello, lucidava il manubrio, e verificava costantemente la funzionalità dei freni a bacchetta e del piccolo faro anteriore, che si illuminava grazie ad una dinamo (che si autoricaricava con la pedalata). Molti, al ritorno dal turno di fabbrica, reggendola con un mano sotto il carter e con l’altra sul manubrio, se la portavano amorevolmente in casa salendo le scale con riguardo, facendo in modo che non urtasse le pareti e si potessero così rigare il telaio o i parafanghi.

Portalettere in bicicletta. Recapito della Posta in un cascinale decentrato

Ma qual è l’etimologia di questa parola, ora divenuta – almeno da noi – pressoché obsoleta? Ancor oggi, nel linguaggio giovanile francese, e nell’argot parigino, il termine bécane è usato per indicare sia la bicicletta, in alternativa a vélo (contrazione di vélocipède, velocipede), sia la moto, purché sia di medio-piccola cilindrata. Il termine, sempre familiarmente, è usato anche per indicare un piccolo marchingegno, spesso un po’ cigolante e male in arnese, che ancora funziona, ma che quando lo si usa riproduce una sorta di cigolio, oppure un picchiettio ripetuto e insistente.  È proprio in questa successione di suoni un po’ stridenti (dovuti all’alternanza delle pedalate e che vagamente ricorda il rumore del becco  ‒ in francese bec, in piemontese bèch ‒ di un picchio che picchia ripetutamente su una corteccia), sarebbe da ricercare l’etimologia di questa parola.

Secondo un’altra scuola di pensiero, forse più attendibile, Bécane sarebbe la marca di un antico costruttore di affidabili biciclette, con sede e stabilimento in Francia e/o nel Belgio fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento. A sostegno di questa tesi, c’è anche una litografia di un affermato artista simbolista d’Oltralpe, Edouard Vuillard, datata 1889-1894 e intitolata Bicicletta (Bike) Becane: l’opera ritrae alcuni atleti in gara mentre pedalano in sella alle loro “bécanes”. Becane era anche la marca di un ricostituente, il cui uso veniva reclamizzato per rigenerare le energie consumate dai primi pionieri del pedale.

Edouard Vuillard – Bike Becane, litografia,1889-1894

Un ricostituente che  sarebbe stato utile anche agli operai torinesi che, inforcate le loro becane, si dirigevano nelle fabbriche della città per affrontare i loro faticosissimi e quotidiani turni di lavoro, qualunque fosse la stagione dell’anno e con qualsivoglia condizione meteorologica.

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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