Lingua & tradizioni piemontesiΩ Primo Piano

Tra i modi di dire piemontesi è uno dei più sofisticati, arguti e maliziosi: ël pocior

C’è una parola piemontese il cui significato è implicito in se stessa: è il “pocior”. Il verbo “pocé”, da cui il vocabolo pocior deriva, può essere transitivo o riflessivo: non è irregolare, ed appartiene alla 1^ coniugazione, come parlé, ciucé, canté, balé.

Letteralmente significa intingere, immergere, bagnare, pucciare. Ecco allora che “i podoma pocesse ij pé” (possiamo “pucciarci” i piedi) nell’acqua di mare passeggiando sul bagnasciuga (forma riflessiva), come pure (soprattutto nell’intimità di un desco famigliare) può essere tollerato intingere un pezzo di pane nel sugo dell’arrosto per assaporarne il gusto (utilizzo del verbo “pocé” nella forma transitiva), così come si può “pocé ‘n crocion ëd pan” (“pucciare” un tozzo di pane) nella bagna di qualsiasi altro intingolo. E’ il tipico gesto di chi, davanti ai fornelli e a una “ramin-a” in cui sta rosolando il rost-beaf, non sa resistere alla tentazione di pregustare il sughetto che guarnirà il secondo piatto che tra poco verrà servito in tavola ai commensali.

Fin qui, tutto chiaro. Tutto molto facile, direi: anche perchè l’equivalente termine “pucciare” (che probabilmente l’Italiano ha preso a prestito dal Piemontese!) è ormai molto diffuso e di significato inequivocabile, e la “puccetta” è un’azione che – apertamente o di soppiatto – abbiamo fatto tutti più di una volta nella vita.

Il termine “pocior” è invece più sofisticato, più arguto, persino più malizioso: filosofico direi.

Deriva certamente dal verbo “pucé” ed indica il contenitore che contiene “la bagna” in cui tutti intingono un tozzo di pane o le verdure di un pinzimonio comune. In una stessa ciotola comune, i dodici Apostoli “pucciarono” insieme a Gesù nell’Ultima Cena. E dalla “puccia” non si esimette nemmeno Giuda, il traditore. E fin qui, ancora una volta, tutto è abbastanza chiaro. Le cose si complicano quando il termine “pocior” viene usato in senso figurato, cioè non come un oggetto (non un vassoio, né un “grilletto” – ah come mi piacciono i piemontesismi! -, e neppure una scodella o una ciotola) ma come una metafora.

E allora vi spiego l’arcano: il “pocior” diventa il pozzo di San Patrizio da cui tutti attingono denaro facile sperperando a destra e a manca le risorse comuni, sia che si tratti di una comunità famigliare, come di una confraternita, sia che si tratti di un’associazione, come di un ente pubblico o di un’azienda privata. Primo o poi la “finanza allegra” dovrà terminare, e quando il pozzo si rileverà completamente asciutto, non ne uscirà più denaro contante, ma soltanto delusioni, amarezze, e forse, la galera.

C’è anche un’accezione alquanto permalosa del verbo “pocé”, quando lo si usi in espressioni di questo registro: ” Chiel-lì a l’ha mach intension ëd pocé ‘l bëscotin ansema a cola fija”. Non sto a tradurre, ma è evidente che non ci si riferisce ad un invito galante rivolto da un corteggiatore ad una fanciulla per consumare insieme un cappuccino con fragranti biscotti a colazione: qui la maliziosa allusione (benché criptata) è già fin troppo esplicita, per quanto sia esternata con il classico e arguto understatement piemontese.

(Sergio Donna | Modi di dire piemontesi)

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

Articoli correlati

Pulsante per tornare all'inizio