ENOGASTRONOMIA

Nel Piemonte dei nobili Obertenghi, alla scoperta del Timorasso e del Montebore

Il Timorasso, vino bianco da invecchiamento ancora poco noto al grande pubblico, e il Montebore, il formaggio a forma di torta nuziale, nascono in quei territori del Piemonte sud-orientale che, volendo assegnare loro un’identità basata su matrici storiche comuni, potremmo definire obertenghi

Alla metà del X secolo si affermò infatti in queste zone la dinastia marchionale degli Obertenghi, originata da Oberto, capostipite eponimo investito della carica di marchio (marchese) da re Berengario II nell’ambito di un progetto di riorganizzazione del potere che comportò la suddivisione dell’attuale Piemonte (e dei territori limitrofi) in quattro marche, una già esistente, la marca anscarica, e tre nuove, aleramica, arduinica e obertenga.

Proprio nella parte di Piemonte anticamente dominata dagli Obertenghi, da cui trassero in seguito origine importanti lignaggi come i Malaspina, gli Estensi, i Pallavicino, i Garofoli, vede la luce il vino ricavato da uve Timorasso, oggi compreso nella Doc Colli Tortonesi, che riguarda quaranta comuni disposti lungo le sei valli (Ossona, Curone, Grue, Spinti, Borbera, Scrivia) di quest’area stretta tra Oltrepò pavese, Appennino Ligure e Scrivia. Il territorio, in prevalenza collinare e montagnoso, facente capo al centro principale di Tortona, è tradizionalmente rinomato per la frutta, come la ciliegia di Garbagna, la pesca di Volpedo, la mela Carla della val Borbera, per i formaggi, di cui è re il Montebore, e per gli insaccati del Giarolo, tra cui il Salame Nobile, i Giarolini e il Cucito, prodotti con carne suina da capi allevati allo stato semibrado.

Già la Guida Vinicola Illustrata della provincia d’Alessandria edita nel 1911 classificava i colli tortonesi come zona vocata per la produzione vinicola, incentrata su vitigni a bacca rossa come Barbera, Croatina, Freisa, Nibiò (che, a dispetto del nome, non è Nebbiolo, bensì un biotipo di Dolcetto) e a bacca bianca, tra cui Cortese e Timorasso.

La scommessa di valorizzare il Timorasso, riscoprendone le potenzialità di bianco da invecchiamento, risale agli anni Ottanta del Novecento, quando Walter Massa, con azienda in Monleale, avviò il recupero del vitigno, vincendo lo scetticismo dei più e radunando col tempo attorno a sé altri produttori sino alla trentina attuale. Tra questi c’è Elisa Semino dell’azienda La Colombera di Vho, borgata di Tortona appena sopra la città. Elisa si unì all’avventura del Timorasso nel 1998, vincendo le perplessità della nonna che, abituata a lavorare in vigna, la riteneva una varietà «più difficile da coltivare delle altre e che poi alla fine di uva non ne fa mica tanta».

Recente è la scelta del Consorzio Tutela Vini Colli Tortonesi di creare un marchio, “Derthona”, identificativo del territorio in quanto ricalcato sul nome latino di Tortona, fondata verso la fine del II sec a.C. come prima colonia romana nei territori celto-liguri del Piemonte, concedendolo in uso ai produttori di Timorasso che ne facciano richiesta. L’idea alla base del progetto è di legare sempre di più nell’immaginario comune il vino al territorio in cui nasce, i colli tortonesi, che con le loro peculiarità pedoclimatiche conferiscono al Timorasso il suo carattere distintivo e irripetibile, un po’ come è accaduto per il Barolo, ricavato da uve Nebbiolo coltivate in un’area ben delimitata in cui il vitigno esprime al massimo le proprie potenzialità.

I terreni collinari su cui prospera il vitigno Timorasso, che, per la delicatezza del grappolo, predilige le esposizioni soleggiate e riparate dai venti, risaltano per il colore quasi bianco, che ne segnala la ricchezza in argilla e calcare: proprio la composizione dei suoli, unitamente ai forti sbalzi termici tra giorno e notte tipici di quest’area protesa verso i contrafforti appenninici, contribuisce a rendere il vino Timorasso un prodotto di notevole vigoria e corpo, profumato, con acidità spiccata. La longevità di questo vino, che con l’invecchiamento sviluppa complessità aromatica, tra il minerale e l’idrocarburo, fa sì che i risultati migliori siano apprezzabili dopo cinque anni di affinamento in bottiglia.     

La regressione del vitigno in termini di superficie coltivata, seguita al flagello della fillossera, è stata motivata da caratteri varietali ritenuti negativi come la resa non uniforme, la compattezza dei grappoli, esposti all’attacco delle muffe, e la tendenza all’acinellatura, cioè alla presenza, nei grappoli pronti per la raccolta, di acini rimasti piccoli, o perché acerbi (acinellatura verde) o perché non sviluppati pur avendo raggiunto la maturazione (acinellatura dolce).

Protagonista delle tradizioni casearie delle valli tortonesi è invece il Montebore, già citato in documenti del XII secolo, ma risalente forse al IX/XI secolo, quando i monaci benedettini insediatisi sul monte Giarolo ne avviarono la produzione. Il formaggio attrae già dall’aspetto per la curiosa forma a torta nuziale o a “ziggurat” con tre o cinque piani sovrapposti (il cosiddetto “castellino”), ispirata forse al diruto castello del paese, e deve il suo nome all’omonima borgata, Montebore, ora frazione di Dernice in val Curone, sullo spartiacque tra le valli Grue e Borbera.

La produzione, cessata negli anni Ottanta del Novecento con il ritiro degli ultimi casari, è stata ripresa a partire dai primi anni Duemila grazie all’iniziativa delle comunità locali e alle sperimentazioni condotte in sinergia dall’Istituto caseario di Moretta e dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, che hanno individuato, basandosi sulle testimonianze degli anziani, la procedura di caseificazione più idonea a riprodurre le caratteristiche tradizionali del Montebore, oggi Presidio Slow Food.

Il Montebore, ricavato da latte vaccino crudo al 70 per cento circa (un tempo da vacche di razza Tortonese, oggi quasi scomparse) in concorrenza con latte ovino nella misura del 30 per cento, ma con possibili tracce di latte caprino (fino al 5 per cento), può essere consumato fresco oppure sottoposto a stagionatura sino a un massimo di sei mesi. La struttura a “castellino” si ottiene sovrapponendo i dischi a diametro decrescente, già modellati con le apposite formelle dette ferslin.

 

     

 

 

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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