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Modi di dire: “travajé a la fàbrica dij véder” e “pianté ‘l pichèt”

Il significato letterale di “travajé a la fàbrica dij véder” e “pianté ‘l pichèt” è più o meno questo: lavorare alla fabbrica dei vetri, cioè in una vetreria, e piantare il picchetto. Ma qual è il senso sotteso di queste locuzioni?

Se un piemontese doc (sicuramente un po’ attempato), vi dovesse rivolgere questa domanda con un tono appena appena seccato: “Ch’a scusa, monsù, ma chiel a travaja a la fàbrica dij véder?”, non è che quel tipo sia stato spinto da una compulsiva e improvvisa curiosità di conoscere la vostra attività professionale o di mettere il naso nei vostri affari. E neppure c’è pericolo che stia sbagliando persona: si sta rivolgendo proprio a voi.

È infatti molto probabile che, certo inconsapevolmente, voi vi siate posizionati proprio davanti a lui, impedendogli la visuale di un paesaggio, se vi trovate in un punto panoramico, oppure privandolo della vista ammirata di un quadro, se vi trovate in un museo o in una pinacoteca. In effetti, in tal caso, avete appena compiuto un atto poco educato, sia pur involontario.

A ben pensarci, chiarissima è l’allusione: nulla è più trasparente di una lastra di vetro. I piemontesi sono fatti così, usano locuzioni e perifrasi sempre un po’ argute. Non direbbero mai: “Scusi, ma lei crede di essere trasparente?”. Usano espressioni più raffinate, più sofisticate, e più ironiche. Ma non per questo meno chiare, incisive, e soprattutto efficaci. Certe locuzioni verbali in piemontese sembrano quasi delle parabole, delle allegorie ad effetto.

Certo, se insistete nell’oscurargli la visuale, allora quel piemontese doc raddoppierà la dose: “monsù, ma chiel a l’ha piantà ’l pichèt ambelelì?” (cioè: signore, ma lei ha per caso piantato le tende proprio lì?).  In realtà “pianté ‘l pichèt” – ce lo ricorda Roberto Balocco nella canson dla piòla “Sla rampa ‘d Cavorèt” – può anche avere un altro significato: quello di simboleggiare un rapporto erotico, ma nel nostro contesto, ovviamente, la locuzione ha un significato più prossimo a quello letterale, cioè quello di “accamparsi” davanti a qualcuno, montando una bella tenda con tanto di picchetti ben piantati nel suolo.

Al terzo intervento (santa passiensa!), il tono si fa più diretto, con evidenti segni di insofferenza nella voce e sul volto: “Antlora, monsù, a veul gavesse da lì, për piasì?”  Se l’intruso ancora non capisse il motivo della richiesta (o fingesse di non capirlo), ecco l’aggiunta chiarificatrice, che non lascia né dubbio né appello: “I s-ciairo nen!” (Non ci vedo!).

Un classico picchetto di legno

Se poi voi (o colui che abbiamo chiamato “intruso”) doveste ancora ottusamente ostinarvi a non intendere (o a fingere di non intendere), allora il nostro piemontese doc sarà costretto, giocoforza, a rincarare ulteriormente e perentoriamente la dose e a salire di registro: “Ma ch’as gava d’ant ij ciap, ché i vëddo nen!” (ma si tolga dalle scatole, ché non vedo!).

È però alquanto raro che si debba arrivare a tanto.  In genere la visuale ostruita si libera già dopo il primo garbato intervento nella colorita parlata subalpina.

Non c’è infatti nulla di più efficace del garbo o della gentilezza (il classico deuit piemontese) per rivendicare un piccolo diritto o per far rispettare una priorità, un ordine d’arrivo, ecc., anche se il tutto è condito con un pizzico di malcelata ironia.  

Nulla di più, del resto, delle più elementari norme di buona creanza già codificate nel cinquecentesco Galateo di Giovanni Della Casa, oggi un po’ troppo impolverato, e caduto in disuso, ma che varrebbe la pena di estrarre dallo scaffale, per rileggerlo e praticarlo anche ai nostri giorni.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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