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Le “guce da bàila”, reminiscenze di nutrici d’altri tempi

Ringrazio l’amico pittore Giampiero Levi Capello, appassionato cultore di lingua piemontese, per avermi recentemente offerto lo spunto di ricordare un termine che rievoca tempi lontani, per quanto sia ancora ampiamente utilizzato da coloro che in piemontese si esprimono correntemente anche al giorno d’oggi.

Oggi voglio infatti parlarvi della gucia (o agucia) da bàila. In italiano è la spilla di sicurezza: quella spilla, molto nota in sartoria, che serve per appuntare accessori, broches e piccoli bijoux su camicette e pullover, ma anche distintivi, o che, più semplicemente, viene usata per fermare due lembi di tessuto, ad esempio per celare scollature altrimenti troppo ardite.

Ma se le “guce da bàila” oggi raramente sono utilizzate per nascondere procaci decolleté, la loro storia antica continua a nascondere molte abitudini e usanze d’antan ormai pressoché dimenticate.

Intanto la bàila è la balia, ovvero la nutrice: colei che veniva assunta a servizio presso famiglie aristocratiche, nobili, o comunque altolocate, per nutrire, col latte del suo seno, i piccoli rampolli di famiglia, in sostituzione di quello delle loro madri naturali  (che, nella maggior parte dei casi, volevano salvaguardare – anche dopo la maternità – la perfezione estetica delle loro forme, che l’allattamento avrebbe potuto minare, oppure semplicemente perché la natura non le aveva rese predisposte all’allattamento al seno, negando loro una sufficiente quantità di latte materno per far crescere e svezzare i figli).

C’erano poi le balie asciutte (bàile sùite), che non allattavano i pargoli delle famiglie, ma si occupavano di seguirli e accudirli durante la giornata, curandone anche l’igiene intima e il cambio del vestiario e della biancheria. Erano chiamate anche governanti: figure a metà tra le istitutrici, visto che di rado si occupavano di fornire ai bambini i fondamentali della lettura e dell’insegnamento, e le moderne baby sitter, come le chiamiamo oggi, con la differenza che anziché essere pagate ad ore, erano quasi sempre stabilmente inquadrate tra il personale di servizio, e vivevano regolarmente in famiglia.

Dunque, la bàila, cioè la balia, asciutta o non asciutta, è di per sé già un forte indizio, per spiegare perché, in piemontese, le spille di sicurezza si chiamano ancor oggi guce da bàila. Credo che adesso sia chiaro: semplicemente perché le guce da bàila venivano utilizzate per fermare i pannolini puliti (le cosiddette pezze) dopo il cambio dei piccini.

Talora si sente usare il termine “gucia da bàlia”, in alternativa a “gucia da bàila”: non è sbagliato, ma ciò forse nasce da un involontario lapsus linguae che porta all’inversione delle lettere. Il termine più corretto direi che è proprio “bàila”, che ha anche (e ciò conferma la congruità della tesi) una versione maschile: il “bàilo” (esiste anche il cognome piemontese Bailo!), inteso come consorte della bàila, e ancor più, come persona che in genere si occupa, con competenza e passione, dell’assistenza e del cambio dei bambini. Figura oggi piuttosto frequente e ambita, ma che in passato era spesso oggetto di ironia e di sorrisini ironici.

Attenzione però a non confondere il significato: in un’altra accezione, pijé un bàilo, non significa assumere un… “balio asciutto”, ma prendere un abbaglio, o se vogliamo, capire lucciole per lanterne.

E poi c’è il “bailòt”: che è proprio l’infante dato a balia ad una nutrice.  Altra implicita conferma che “bàila” è forse il modo più corretto di definire la balia in piemontese, per cui la spilla (gucia o agucia) da lei normalmente usata, e di cui abbiamo ampiamente parlato in questo articolo, non può che essere, per l’appunto (e come volevasi dimostrare),da “bàila”.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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