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Breve glossario degli insulti in lingua piemontese per offendere… con garbo

Tra ironia e ilarità, gli epiteti piemontesi possono colpire nel segno e provocare caustiche ferite nell’anima

Gli epiteti piemontesi, pur posizionandosi generalmente su un registro meno pesante rispetto ai corrispondenti insulti in lingua italiana, possono tuttavia colpire efficacemente nel segno, e ferire anche profondamente. Di primo acchito, sembrano poco incisivi e poco caustici, ma non è così: il fatto è che il “metro di misura” piemontese dell’insulto è diverso da quello della lingua italiana. Tutto qui. Basta “tarare” l’intensità dell’epiteto nella posizione desiderata di un’ipotetica scala di valori, verso il basso o verso l’alto, ed il gioco è fatto. E così, a seconda della sua intensità, l’epiteto piemontese può lasciare il tempo che trova, oppure infilare l’avversario come una lama di fioretto, causandogli una ferita mortale.

Il lessico piemontese, in genere, non è mai volgare, anche quando l’invettiva delle parole si fa più pesante, proprio perché (come s’è detto) il registro dei termini si mantiene il più delle volte su livelli leggermente sottotono rispetto a quelli equivalenti in italiano (quando ci sono). E poi, c’è da dire che gli insulti in piemontese sono spesso velati di ironia, e se non fosse che spesso nascondono sottili sottintesi, potrebbero essere talvolta scambiati per termini scherzosi, o persino per degli innocui vezzeggiativi. Cionondimeno, possono lasciare il segno fino al profondo dell’anima di colui che riceve i fendenti, perché chi li usa sa che possono essere terribilmente efficaci.

Proviamo allora ad esaminare alcuni degli epiteti piemontesi più diffusi, cercando di sviscerarne il significato reale, e a redigere una sorta di scala di incisività, partendo dagli insulti più lievi fino ad arrivare a quelli decisamente più pesanti (e quindi più offensivi e letali).

Divideremo gli epiteti in tre fasce di intensità e efficacia, attribuendo a ciascuna fascia tre colori diversi, gli stessi dei semafori: verde, offesa leggera; giallo, offesa media; rosso: offesa incisiva.

Nella fascia verde (a bassa intensità) troviamo epiteti come bel (nel senso di “ingenuo”), faseul (fagiolo), tupin (letteralmente: pignatta, tegame in terracotta), pòr bambin (lett.: povero bambino), fafioché (lett.: fa-nevicare), bonòm o bonomeri (buonuomo, sempliciotto).

Questo è il primo stadio dell’insulto: o meglio, più che di insulti, si tratta di epiteti bonari, anche se ciascuno di essi, a ben vedere, ingloba dentro di sé qualche aculeo acuminato che può offendere e cogliere nel segno. Qui è la metafora che è incisiva. È il riferimento sotteso che è pungente (anche se resta velato di bonomia): morbido come un fagiolo, vulnerabile come un tegame in terracotta, innocente come un bambino, ingenuo come chi crede di far nevicare guardando il cielo, sempliciotto come un buonuomo (non certo però nel senso di uomo mite, onesto, conciliante). Qui, poi, c’è dietro tutta una filosofia, o forse una vera furberia, per mascherare il senso vero che sta dietro alla parola, che – proprio per questo – può essere estremamente efficace. Provate a entrare nel merito: essere definito un pòr bambin non è affatto gratificante: significa esser considerati persone dal cervello infantile.

Saliamo adesso ancora di registro (ed entriamo in fascia gialla): ciola, ciola e tre quart, fabiòch, gadan, badòla, torlopopo, folastron (quest’ultimo con il significato, in parte ancora bonario, di giullare, di mattacchione, ma comunque “folle”) ed altri ancora: per questi termini, più o meno tutti equivalenti, l’epiteto è meno ermetico, più diretto. Ma non ancora sfacciato. E vuole rimarcare, nei confronti del destinatario, una certa insipidità, una evidente carenza di sale in zucca, dimostrata dal malcapitato di turno in talune circostanze, o in una situazione particolare. Dire ad un amico: it ses na ciola (o se si vuole aggiungere un ulteriore pizzico di salace effetto: it ses na ciola e tre quart), non è certo un complimento, ma chi lo riceve – se mantiene ancora nella sua scatola cranica una residua dose di buonsenso – più che un’offesa, forse potrebbe ancora considerarlo un invito a riflettere, e ad essere più razionale di fronte a certe situazioni in cui si è dimostrato davvero poco avveduto. Come si vede, il piemontese è più morbido, meno sguaiato di certe espressioni in italiano, e in qualche caso l’epiteto può essere persino usato con finalità terapeutiche e taumaturgiche.

Ed ora passiamo al terzo stadio, che comprende almeno cinquanta sfumature di rosso, che vanno dal cremisi al carminio, fino ad arrivare al granata più intenso e all’amaranto. Qui si comincia a sconfinare nell’evidenza (e quindi nella pesantezza) dell’offesa. Le invettive possono provocare escalations pericolose, con scaramucce verbali (e non solo) dai risvolti imprevedibili. In questa fascia il campionario degli insulti si fa davvero esteso e articolato. Ci sono quelli per sottolineare la presunta mancanza totale di buon senso nella cervice della controparte (come folfoliro o folitro, torolo, gasepio: davvero difficile, qui, trovare l’esatto equivalente in italiano). Ci sono quegli altri che pongono l’accento sul suo  rimbambimento (come todòrmi, cagamòl, fòl, beté, bedo, balengo, gagio o gagió, garola), o sull’inaffidabilità della persona a cui gli insulti sono indirizzati (come buracio o buratin). Nella fascia rossa non mancano gli insulti specifici per destinatari femminili, come ciampòrgna (letteralmente, zampogna), tërla (donna di facili costumi), slandra (pigrona, ma anche donna leggera), e via dicendo.

E chiudiamo in bellezza, ricordando ancora un paio di termini attinti nella parte più incandescente della zona rossa degli insulti piemontesi: crin catòlich (un’autentica chicca di insulto, destinato a chi si atteggia a virtuoso praticante del Vangelo, ma poi si comporta ipocritamente da maiale) e, soprattutto – dulcis in fundo o in cauda venenum? (Fate voi) – il prototipo degli epiteti piemontesi: «picio!», con due varianti: “picio d’òr” (improperio più tenue) e “picio quàder” (insulto “al quadrato” e quindi decisamente più marcato).

La parola piemontese picio sta anche per picchio, uno degli uccelli più pittoreschi e simpatici dei nostri boschi, ma nella fattispecie dell’invettiva, ha un altro significato che non dico.

Originale davvero, la lingua piemontese, anche negli epiteti. Ce n’è davvero per tutti: c’è solo da sbizzarrirsi.

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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