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Alla scoperta delle robiole del Piemonte tra gusto, arte, storia e paesaggi mozzafiato

Nella vasta gamma di specialità casearie del Piemonte, occupano un posto di rilievo le “robiole”. Il termine, utilizzato per designare una famiglia di formaggi con caratteristiche comuni, viene fatto derivare dal latino ruber, rosso, da cui il nome rubeola, robiola, in riferimento alle tonalità rossastre assunte dalla crosta dopo la stagionatura, oppure, secondo un’altra versione, dal nome d’una località della Lomellina chiamata Robbio, conosciuta fin dal Medioevo per la produzione di robiole.

Benché esistano formaggi definiti come “robiole” in diverse aree del Piemonte, le più apprezzate si producono oggi nelle Alte Langhe, territorio ricco di boschi, pascoli e, in tempi più recenti, segnato dall’espansione dei noccioleti. In questa zona così aspra, in cui l’uomo s’ingegnava a modellare gli impervi versanti collinari con i terrazzamenti sorretti da muretti a secco, allo scopo di guadagnare terra preziosa per la coltivazione e il pascolo, le risorse a disposizione erano limitate: tra queste assumeva importanza la raccolta delle castagne, consumate fresche o fatte essiccare in apposite strutture vicine alle abitazioni, chiamate scau, per prolungarne la conservazione, e l’allevamento del bestiame, capre, vacche, ma soprattutto pecore, di cui ogni cascina delle Alte Langhe possedeva pochi capi, in genere da due a sei, raramente qualche decina, a formare un piccolo gregge (strop). La disponibilità di latte ovino, spesso mescolato a quello vaccino, o di latte caprino alimentava una rinomata produzione casearia, cui accennano già i testi degli scrittori latini. Mentre Diodoro Siculo e altri autori elogiavano la forza e l’intrepidezza nel combattere degli autoctoni, di stirpe celto-ligure, che avevano sempre creato problemi agli eserciti romani, Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis (I secolo d.C.) si occupava delle abitudini alimentari, descrivendo la ricca produzione locale di formaggi ricavati da latte ovino e celebrando soprattutto le qualità del “pecorino” di Ceva, considerato tra i migliori del suo genere.

Iniziamo l’itinerario da Murazzano, comune posto a oltre 700 metri di quota e dominato da un’alta torre in pietra, che è l’elemento superstite più vistoso del complesso fortificato, appartenuto fra XIV e XV secolo a un ramo dei marchesi di Saluzzo e danneggiato in modo irreparabile negli eventi bellici del Settecento. Priva di fondamenta, ma poggiante direttamente sulla marna, la torre, in origine collegata al castello da una passerella sospesa a circa sette metri dal livello del terreno, risale alla seconda metà del XIII secolo e si caratterizza per l’apparato a sporgere sorretto da una triplice serie di beccatelli. Nel santuario costruito nella prima metà del Seicento e in seguito ampliato dai padri Filippini si conserva, dipinta su una lastra d’ardesia, una riproduzione pittorica della Beata Vergine di Hal, cui è dedicata la chiesa. L’immagine sacra, che richiama la statua della Madonna venerata nella località fiamminga di Hal, venne trasportata in loco per desiderio di Maria, sorella di Ambrogio Spinola, fino al 1628 comandante generale dell’Armata spagnola delle Fiandre, morto a Castelnuovo Scrivia in Piemonte nel 1630.

Murazzano deve la propria notorietà alla tipica robiola ricavata da latte ovino

Definito “Scudo e chiave del Piemonte” per la sua posizione strategica, il paese langarolo deve la propria notorietà in ambito caseario alla produzione del “Murazzano Dop” (Denominazione di Origine Protetta), una tipica robiola piemontese ricavata da latte ovino in purezza della razza autoctona Pecora delle Langhe, pur essendo consentita dal disciplinare l’aggiunta di quote di latte vaccino in misura non superiore al 40%. Formaggio grasso a pasta fresca, la robiola di Murazzano, prodotta con il latte di due mungiture giornaliere e con periodo di stagionatura da quattro a dieci giorni, si presenta esternamente priva di crosta, di colore bianco latte per le forme fresche e giallo paglierino per quelle più mature. Tra i produttori del Murazzano Dop ricordiamo il caseificio Reale Marenchino di Savigliano, che effettua tutte le fasi di lavorazione entro i confini del comune langarolo, utilizzando esclusivamente latte della razza “pecora delle Langhe”.

Secondo un’antica consuetudine le fasi produttive della robiola erano appannaggio delle donne, dalla mungitura alla commercializzazione del prodotto, che un tempo veniva trasportato a piedi o in bicicletta, adoperando ceste di vimini coperte da tovaglioli a quadretti, per essere venduto nei mercati delle Langhe e distribuito nei negozi della pianura, fino a Torino.  Con la robiola locale si prepara poi una specialità quasi mitica, il “Bross di Murazzano”, che appare come una crema densa e bianco-grigiastra conservata e venduta in vasetti di vetro. Per ottenerla si utilizzano robiole tagliate a pezzi, fatte rifermentare con l’aggiunta di piccole dosi di latte ovino: il procedimento, oltre a rendere cremosi i pezzetti di formaggio, conferisce al prodotto finale un sapore piccante e aromi acri.

A 803 metri d’altitudine, sul crinale che fronteggia le valli del Tanaro e del Belbo, sorge il comune di Bossolasco, caratteristico per le case in pietra di Langa, con tonalità dal grigio al beige, un’arenaria oggi estratta in un’unica area di cava, ma un tempo recuperata dai lavori agricoli di scasso o dai torrenti nei mesi di siccità, e per le rose che ravvivano con i loro colori le vie del paese. Feudo imperiale fino al 1735, quando passò ai Savoia, conserva memoria dei suoi antichi signori, i marchesi Del Carretto, discendenti dall’aleramico Bonifacio del Vasto, nell’austera dimora seicentesca, indicata popolarmente come “Palazzone”, edificata nei pressi del castello trecentesco, andato in rovina durante le guerre di successione del Monferrato.

Uno scorcio di Bossolasco

Anche l’antico dominio dei Del Carretto vanta la sua specialità casearia, per lo più indicata come “toma di Bossolasco”, ma conosciuta anche come “robiola di Bossolasco”, per le caratteristiche che la accomunano alle altre robiole langarole. Formaggio a latte intero, misto ovino-vaccino in percentuali variabili e a pasta cruda e molle, viene in genere consumato dopo un breve periodo di otto/dieci giorni in cui le forme vengono salate e rivoltate più volte, ma in alcuni casi si prolunga la stagionatura riponendo la robiola, intera o tagliata a metà, in appositi barattoli di vetro (burnìe) oppure conservandola sotto olio di oliva in vasi ermetici, per ottenere la cosiddetta “toma forte”. Anche a Bossolasco si produce, con lo stesso procedimento già descritto, il Bross, fatto rifermentare in vasi di coccio anche con l’aggiunta di un po’ di grappa.

La robiola di Roccaverano è prodotta secondo tecniche e saperi tramandati di generazione in generazione

Nelle Alte Langhe astigiane, abbarbicato a 800 metri di quota tra le due valli Bormida, troviamo poi il paese di Roccaverano, in un territorio ricoperto di boschi e pascoli e segnato dai calanchi, solchi di erosione del terreno argilloso che s’infittiscono verso Mombaldone, tagliando di netto le valli. Caratteristici dell’intervento antropico sul paesaggio sono le geometrie dei terrazzamenti che, costruiti a secco in arenaria locale, servivano a ricavare appezzamenti di terreno in piano su cui far crescere il grano o pascolare le capre. Il paese, passato dalla originaria dominazione aleramica dei discendenti di Bonifacio del Vasto all’assoggettamento nel 1209 al comune di Asti, mantenne inizialmente l’infeudamento ai marchesi Del Carretto, poi sostituiti nella prima metà del Trecento dagli Scarampi, potente famiglia di banchieri astesi con forti interessi economici nel regno di Francia. Considerevole per le dimensioni del paese è il patrimonio artistico e architettonico, che annovera le vestigia del castello duecentesco, con l’elegante torre cilindrica in pietra un tempo fungente da mastio, la torre isolata in località Vengore, a pianta quadrata, sorta nel XIII secolo come postazione di vedetta collegata all’espansione del comune di Acqui, la parrocchiale del primo Cinquecento, che sviluppa idee di derivazione bramantesca, e la chiesa cimiteriale di San Giovanni, ornata all’interno dal più completo ciclo di affreschi tardo gotici dell’Astigiano.

La torre di Vengore a Roccaverano

Roccaverano, che ha sofferto un imponente spopolamento nel secondo Dopoguerra, è però divenuta famosa in tempi recenti per la locale robiola, prodotta ab immemorabili secondo tecniche e saperi tramandati di generazione in generazione che oggi, dopo l’ottenimento della Dop, sono stati codificati in un disciplinare, la cui osservanza è demandata a un Consorzio di Tutela con poteri ispettivi e di controllo. Al momento dell’immissione sul mercato delle robiole, il Consorzio rilascia un bollino che attesta la conformità del prodotto alle caratteristiche chimiche, fisiche e organolettiche previste dal regolamento. Simile per forma, dimensione e colore al Murazzano Dop, la “robiola di Roccaverano Dop”, cremosa, compatta, vellutata, è ricavata però da latte crudo caprino in purezza, proveniente da capre delle razze Roccaverano e Camosciata Alpina, e loro incroci, oppure con un mix di latte caprino, nella misura minima del 50%, e, per la restante quota, di latte crudo intero vaccino e/o ovino, ottenuto da mungiture consecutive effettuate nell’arco di 24/48 ore. La robiola di Roccaverano, prodotta in una ventina di comuni delle province di Asti e Alessandria, tra le valli Bormida e Erro, con baricentro nel paese da cui prende il nome, può essere venduta fresca, dopo almeno tre giorni di maturazione naturale, oppure in versione stagionata, a partire dal decimo giorno dalla messa negli stampi.

In una vasta area della Provincia Granda, con sconfinamenti nelle aree limitrofe, si produce poi la “robiola d’Alba”, formaggio a latte vaccino intero, a pasta molle e di rapida stagionatura. Di forma tipicamente cilindrica, è generalmente priva di crosta nelle produzioni industriali, mentre in quelle tradizionali la crosta compare, sottile, morbida e di colore bianco-crema se consumata fresca, tendente al paglierino chiaro se stagionata. La pasta è bianca, abbastanza compatta, senza occhiatura, mentre il sapore è delicato e piacevolmente acidulo. Durante la “formatura”, in base a una tendenza recente, può essere sottoposta a diverse aromatizzazioni, con peperoncino, tartufo, erba cipollina.

Per concludere l’itinerario ci allontaniamo dalle Langhe inoltrandoci sulle colline dell’Astesana, a Cocconato, antico possedimento dei Radicati che, destreggiandosi tra Monferrato, Savoia e Visconti e stringendo un patto consortile tra un gruppo di famiglie dell’area, riuscirono a costruire un potentato locale in grado di sviluppare un’azione politica autonoma per un paio di secoli. Nel paese, celebre per la mitezza climatica, tale da giustificare l’appellativo di “Riviera del Monferrato”, e per le tradizioni enogastronomiche, opera il caseificio Balzi, rilevato dal marchigiano Benito Balzi nel 1970, che vanta come prodotto di punta la “robiola Coconà”, formaggio molle a pasta bianca, di forma bassa e rotonda, senza crosta, ricavato da latte vaccino intero e sottoposto a affinamento breve, con stagionatura prolungabile a un massimo di sei giorni.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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