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Tinca Gobba Dorata del Pianalto di Poirino: carpione da urlo e non solo

Nell’immaginario collettivo la cucina del Piemonte è legata alla carne, ai grandi arrosti, bolliti misti e brasati, ma anche la produzione ittica, fiorente in una terra d’acque come la nostra, solcata da torrenti e fiumi e ricca di bacini lacustri, vanta numeri importanti e in costante crescita, con all’incirca 270 aziende in attività. Regina degli impianti di acquacoltura piemontesi è la trota, allevata nelle due specie trota fario e trota iridea, seguita da anguilla, tinca, storione. Un tempo era molto praticato anche l’allevamento della carpa, da cui deriva in Piemonte l’uso del “carpione”, ovvero il pesce fritto (carpa, tinca, anguilla), raffreddato e poi immerso in un bagno di aceto, gusti (salvia, aglio) ed erbe aromatiche, metodo che consentiva sia di conservare il prodotto, sia di insaporirlo con quella nota acre (“brusc”) tanto apprezzata dai Piemontesi.

Tra le specie ittiche pregiate e autoctone del Piemonte spicca la Tinca Gobba Dorata del Pianalto di Poirino, varietà di tinca comune che si distingue per la colorazione giallo-dorata del ventre e per la gibbosità all’altezza delle vertebre cervicali. Iscritta dal 2008 nel registro europeo delle Dop (Denominazione di Origine Protetta), questo tipo di tinca è diffuso in un’area di terre argillose incuneate tra basso Torinese, Astigiano e Cuneese, comprensiva di 24 comuni distribuiti tra il Pianalto di Poirino e le prime ondulazioni del Roero.

Qui è comune trovare locande e ristoranti che propongono piatti di pesce come la tinca in carpione (specialità tipica dell’estate) e la tinca fritta, due modi classici di servire questa varietà ittica, ma anche risotto alla tinca o sughi che ne impiegano le carni come base. Il successo del prodotto nella ristorazione è dovuto a una peculiarità della Tinca Gobba Dorata nata, cresciuta e allevata nel Pianalto, che si distingue per l’assenza al gusto e all’olfatto del fastidioso sentore di “fango” (nita) o di “erba” che invece caratterizza le altre tipologie di tinca, e per la tenerezza delle carni.   

La presenza e il consumo della tinca in questa zona del Piemonte èdocumentata sin dal XIII secolo e diede luogo a un’attività di allevamento e di pesca che oggi integra il reddito degli agricoltori, ma che un tempo, per alcuni, poteva rappresentare la principale fonte di sostentamento, come attesta il frequente ricorso in passato a contratti di mezzadria e affitto aventi ad oggetto gli stagni delle tinche oppure i registri settecenteschi da cui si evince l’esistenza di famiglie di pescatori.   

La ragione fondamentale che spiega la tradizione dell’itticoltura in zona è da ricercarsi nella composizione dei suoli, costituiti da argille rosse, un tipo di terreno che, in caso di pioggia, diventa pantano, ma, quando secca, assume la consistenza del mattone. Ed è appunto per fabbricare mattoni, cotti in apposite fornaci, che si effettuarono scavi nel terreno, ricavando invasi che, anche grazie alle proprietà di ritenzione idrica dei suoli, furono poi riempiti d’acqua per essere usati come bacino d’irrigazione e per l’abbeveraggio del bestiame.  

In questi invasi, detti tampe in piemontese, prosperavano specie ittiche come la tinca che, col tempo, assunse caratteri specifici originando una varietà autoctona, la Tinca Gobba Dorata, in cui il colore brillante giallo-oro della livrea pare dovuto ad esigenze di mimetizzazione con la tinta delle acque, torbide e giallognole, mentre la gibbosità sembra imputabile all’abbondanza di nutrimento reperibile negli stagni, ricchi di insetti e piccoli molluschi.

Il rapporto tra peschiere e zootecnia tradizionalmente praticata in zona, con l’allevamento della razza bovina piemontese, è sempre stato stretto, sia perché lo stallatico bovino veniva impiegato come fertilizzante degli stagni (al momento della realizzazione dell’invaso se ne ricopriva il fondale per fornire ai pesci un primo strato di pabulum alimentare), sia perché la tampa era anche usata per portare i bovini all’abbeveraggio. Ancora oggi la peschiera funziona come serbatoio d’irrigazione: periodicamente la si svuota, anche per evitare l’invecchiamento naturale dei fondi, e s’impiega l’acqua per irrigare i campi.

La gestione d’una peschiera, di solito profonda da 1,5 metri a 3 metri, costituisce fonte d’integrazione dei redditi agricoli, ma sull’attività pesano costi notevoli (la realizzazione degli scavi, lo smaltimento dei terreni, l’acquisto degli avannotti) e avversità, che negli ultimi tempi si stanno aggravando. In particolare la tinca è minacciata da due predatori, gli aironi e soprattutto i cormorani, che negli ultimi anni, in conseguenza di mutamenti nelle rotte migratorie, stanno aumentando di numero in Piemonte, causando, con la loro predazione massiva, l’impoverimento dell’ittiofauna lacustre e fluviale.  

Il riconoscimento della Dop ha comportato l’entrata in vigore di regole severe sull’allevamento delle tinche, che disciplinano, tra i vari aspetti, la realizzazione delle tampe, ricavabili solo in argilla, la qualità delle acque, che vanno attinte dai pozzi, la composizione dei mangimi, non di origine zootecnica, ma esclusivamente costituiti da granaglie del Pianalto, con una proibizione specifica riguardante la soia.

Tutto il pesce allevato in zona, anche carpe e pesci gatto, per le caratteristiche dei terreni e la qualità dei mangimi, presenta alte rese e garantisce carni prelibate che, come già è stato rimarcato, non hanno sentore di fango (nita) o erba, sono morbide, magre e sode, mentre la pelle è sottile e dolce. Si può trovare la tinca servita nei ristoranti del Pianalto, che assorbono gran parte della produzione, da aprile ad ottobre, perché la pesca, un tempo effettuata nel periodo della mietitura del grano, viene sospesa nei mesi invernali.   

Il recupero e la valorizzazione di queste antiche tradizioni ittiche nella cucina locale ci ricorda che il pesce ricavato da fiumi, stagni e laghi ha da sempre rappresentato in Piemonte una presenza importante. Lo attesta ad esempio la consuetudine, suffragata da documenti medioevali, ma in uso sino a tempi non lontani, di riservare in dono il primo esemplare di storione pescato nell’anno dalle acque del Po all’arcivescovo di Torino, in forza d’una tradizione risalente alla figura del primo vescovo, San Massimo.  

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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