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Le 15 vittime piemontesi del Titanic lavoravano tutte al ristorante di 1ª Classe

Quella sera del 14 aprile del 1912, non c’era la Luna in cielo, ma le stelle scintillavano nel firmamento e parevano milioni, diffondendo fievoli riverberi sull’Oceano nero. Il mare era liscio come l’olio e il gigante del mare, meraviglia della più innovativa tecnologia navale, procedeva trionfale, come un Titano possente e invincibile, lasciando dietro di sé una lunghissima scia d’argento a coda di rondine, che tagliava di netto l’immensa tavola d’inchiostro e che si perdeva lontano.

Il lussuoso ristorante À la carte , il più prestigioso dei ristoranti di bordo della prima classe, pullulava di dame e cavalieri in frac e abiti di gala. Il vociare soffuso dei commensali, che si disperdeva da ogni tavola rotonda raffinatamente imbandita, confluiva in un unico, quasi monotono brusio, coacervo di sommessi pettegolezzi, di indiscrezioni di politica e di finanza, di impegnativi discorsi di filosofia, di battute piccanti, di confidenze femminili su creme di bellezza, belletti, tra tintinnii di collane, colpi di tosse nervosi, volute di fumo di sigari e risatine maliziose.

Tra i tavoli, svolazzavano − come farfalle sui prati − decine di camerieri, quasi tutti italiani, molti piemontesi: portavano con sicurezza sui palmi delle loro mani cabaret d’argento e piatti in porcellana, ricolmi di prelibatezze per il palato: prosciutto di Parma e affettati, ostriche, soupe d’oignon, roastbeaf, salmone in salsa tartara, cosce di pollo alla lyonnaise, capretto aromatizzato alla mentuccia, anatra all’arancia, foie gras, pesche all’amaretto, bigné di cioccolato e gelato all’italiana.

Il Titanic visto da poppa

I camerieri, in pantaloni neri, camicia bianca e un candido grembiule annodato a vita, i visi sbarbati e i capelli tirati al lucido, si muovevano con sicurezza, tra sorrisi ed inchini, parchi nel proferir parola, limitandosi a rispondere (solo se interpellati) con un composto cenno del capo, ligi al rigido protocollo di comportamento imposto dal maître, Gaspare Antonio Pietro Gatti, detto “Luigi”, italiano di Montalto pavese.  Era lui che li aveva assunti, dando fiducia soprattutto a tanti giovani italiani volenterosi, che del resto – soprattutto nel comparto della ristorazione e a bordo dei transatlantici – erano tra i più ambiti e accreditati camerieri al mondo. Non era severo: semplicemente, era esigente. E sull’aplomb impeccabile degli uomini della sua squadra non poteva transigere.

L’arrivo a New York era ormai imminente e quella ricca e ultima cena prima dell’approdo era stata dedicata al capitano del Titanic, Edward John Smith, commodoro della flotta White Star. Quello era il suo ultimo viaggio, prima di un pensionamento ambito ma vanamente inseguito.

Attorno alle 21.30, ormai consumata la cena, nell’elegante salone dell’À la carte s’intrattenevano solo più alcuni commensali maschi, a godersi l’ultimo vermouth e a fumarsi l’ultimo sigaro, prima di una salutare e decongestionante passeggiata sul ponte, per poi recarsi nella Sala dei biliardi o del Casinò per qualche puntatina a blackjack o a baccarat. C’era infatti ancora molto tempo da impiegare nel gioco o nella danza, al ritmo di qualche valzer viennese, prima di ritirarsi nelle loro suites in stile impero o Luigi XVI, a notte ormai fonda e inoltrata.

Alle 23.40, le vedette di prua avvistarono un iceberg gigantesco: una montagna di ghiaccio grigio, mimetizzata nella penombra, che sembrava crescere di grandezza di secondo in secondo. Ormai era troppo tardi e la pur repentina, ma disperata, manovra per evitare lo scontro tra il gigante di acciaio e il gigante di ghiaccio fu inutile. Furono solo 37 i secondi che trascorsero tra l’avvistamento del mostro e il fatale impatto. Il pur solido scafo si squarciò, lasciando entrare nel suo ventre (giudicato invulnerabile) tonnellate d’acqua assassina.

La maggior parte dei passeggeri, nei momenti iniziali, visse l’incidente con indifferenza e con pacata incredulità, senza rendersi conto che quelli non erano che i prodromi di una tragedia che si sarebbe rivelata fatale. Col passare dei minuti, però, quando le conseguenze dell’impatto si stavano palesemente rivelando in tutta la loro gravità, ben presto si diffusero a bordo ondate di terrore e di angoscia.  Alle 2 e 20 del 15 aprile 1912, dopo due ore e 40 minuti dalla violenta collisione, il transatlantico più famoso al mondo concludeva il suo viaggio inaugurale spezzandosi in due, inabissandosi per sempre nelle profondità dell’Oceano Atlantico.

In quella maledetta notte stellata, tra tutti coloro che erano a bordo del Titanic (2.223 imbarcati, di cui 800 membri dell’equipaggio), perirono ben 1.505 persone. Molti si gettarono nel mare ghiacciato, morendo assiderati; altri si lasciarono inghiottire dall’Oceano insieme alla nave: i superstiti furono 700, quasi tutti tratti in salvo sulle (insufficienti) scialuppe del Titanic, frettolosamente issate in mare nella concitazione generale e spesso semivuote.

Il ristorante di Prima Classe del Titanic dove operavano le 15 vittime piemontesi

Tutti i camerieri piemontesi del lussuoso ristorante  À la carte perirono nel naufragio. Né riuscì a salvarsi il loro maître “Luigi” Gatti: il suo corpo venne recuperato nei giorni seguenti all’inabissamento del Titanic dalla CS Minia; dopo essere stato riconosciuto, venne sepolto nel cimitero di Fairview, ad Halifax, Canada.

Riportiamo qui di seguito i nomi e i cognomi (in ordine alfabetico) dei caduti piemontesi del transatlantico, unitamente ad una breve nota biografica per ciascuno di essi:

Battista Bernardi era nato a Roccabruna, in provincia di Cuneo, nel 1890.Non aveva ancora compiuto ventidue anni. Apparteneva ad una famiglia agiata, ma per un innato spirito di indipendenza aveva deciso di emigrare per racimolare, nel più breve tempo possibile, quanto bastava per mettere su famiglia e sposare Maria, la sua diletta fidanzata. Dopo aver svolto un periodo di apprendistato come cameriere a Parigi, si era poi trasferito a Londra per prestare servizio all’Hotel Ritz, simbolo del lusso della belle epoque londinese. Infine, presa la decisione di imbarcarsi, fu assunto a bordo del Titanic, allettato dal generoso stipendio offerto ai camerieri, soprattutto se italiani.  Il cadavere del giovane Bernardi venne recuperato in mare nei giorni successivi al naufragio: ora riposa nel cimitero cattolico canadese di Halifax, in Nuova Scozia.

L’ultima foto del Titanic prima del naufragio

Fioravante Giuseppe Bertoldo era nato nel 1888 a Burolo, in provincia di Torino, nei pressi di Ivrea. Era un giovane addetto alla dispensa, nelle cucine. Disperso.

Davide Beux, classe 1886, veniva da San Germano, in Val Chisone. Emigrato a Londra per lavoro, fu selezionato dal maître Gatti. Disperso in mare, il suo corpo non venne mai recuperato: di lui non resta neppure una fotografia.

Vincenzo Pio Gilardino era nato nel 1881 a Canelli, patria del Moscato. Anche il suo corpo venne inesorabilmente inghiottito dall’Oceano. Si racconta che al momento dell’assunzione tra i garçons della squadra di Gatti, gli fosse stato imposto di tagliarsi i baffi a manubrio. Le facce dei camerieri dovevano essere pulite e rasate (oltre che sorridenti). E così, sia pur un po’ a malincuore, Vincenzo Pio se li tagliò. Fu assunto, ma perse la vita.

Alberto e Sebastiano Peracchio,invece, erano due fratelli di Fubine, un piccolo borgo arroccato sulle colline alessandrine del Monferrato. Alberto aveva solo vent’anni; Sebastiano ne aveva appena diciotto. Sul Titanic facevano gli assistenti camerieri nel salone dell’ À la carte. Il giorno successivo al naufragio, il Corriere della Sera aveva inserito i nomi dei due giovanissimi fratelli di Fubine tra i naufraghi scampati. Ma la notizia, purtroppo, si rivelò inesatta. I fratelli Peracchio erano invece tra le vittime del Titanic.

Alfonso Perotti, classe 1891, era nato a Borgomanero, in provincia di Novara. Il 6 Aprile 1912, quattro giorni prima di imbarcarsi sul Titanic, aveva spedito dal porto di Southampton, una cartolina a casa, con cui dava notizia del suo imminente viaggio a bordo del gigante del mare. Aveva solo ventun anni ed era fiero di essere stato assunto dalla White Star. Secondo alcune testimonianze, sarebbe morto da eroe, cedendo il proprio posto ad una donna su una delle poche scialuppe calate in mare.

Rinaldo Renato Ricaldone aveva 22 anni. Era partito da Alessandria in cerca di fortuna. Assunto a bordo del Titanic, vestì la livrea di assistente cameriere in occasione del viaggio inaugurale del transatlantico. Il suo corpo non venne mai trovato o recuperato.

Angelo Rotta di Novara, assistente cameriere, era nato nel 1888: l’Oceano non ha mai restituito il suo corpo.

Giovanni Saccaggi, originario di Cannobio Lago Maggiore, era un giovane emigrante piemontese in cerca di fortuna: fu assunto come aiuto cameriere a bordo del Titanic. Il suo corpo non è mai stato ritrovato.

Giacomo Sesia, classe 1888, era di Cavagnolo, nel Monferrato, assistente cameriere. Anch’esso fu inghiottito nelle gelide acque dell’Atlantico.

Giovanni Salussolia, classe 1886, era originario di Alice Castello, in provincia di Vercelli. Era un “glassman”, ovvero il responsabile della cristalleria di bordo . Era lui che sceglieva il bicchiere più adatto per ogni liquore: i balloon per il cognac, le coppe di cristallo per lo champagne, i calici per i vini italiani e francesi, o i mignon per i vermouth di Torino. In occasione del centenario del naufragio, nel cimitero di Alice Castello è stata posta una lapide commemorativa in sua memoria.

Candido Scavino, la tredicesima vittima piemontese del Titanic, era originario di Guarene, in provincia di Cuneo. Nato nel 1869, era responsabile, in cucina, del reparto macelleria: aveva alle sue spalle una consolidata esperienza maturata a bordo di grandi navi. Aveva prestato servizio anche sull’Olympic, la nave gemella del Titanic. Anche il corpo di Candido Scavino non venne mai ritrovato.

Per molti decenni si era pensato che i tredici giovani che abbiamo appena ricordato fossero le uniche vittime piemontesi del Titanic. Le appassionate ricerche di Claudio Bossi, cultore della storia del transatlantico ed autore di numerosi volumi sul ciclopico gigante del mare (Io e il Titanic, Gli enigmi del Titanic, La numerologia del Titanic, Titanic: storie, leggende e superstizioni, ed altre opere ancora) hanno tuttavia consentito di aggiungere altre due vittime al triste elenco dei piemontesi naufragati con il grande transatlantico.

Oggi possiamo affermare con certezza che perirono nel naufragio anche i piemontesi Paolo Luigi Crovella e Carlo Fey. Vediamo allora, anche per questi due giovani periti nella tragedia del Titanic, un breve profilo biografico:

Paolo Luigi Crovella, nativo di San Sebastiano da Po (era giovanissimo, essendo nato nel 1895), era stato erroneamente registrato con il nome di Louis Crovelle, con generalità francesizzate. Nessun Luigi Crovella è mai comparso nei registri del comune di San Sebastiano da Po. Claudio Bossi però non si è dato per vinto, ed esaminando di persona i documenti anagrafici del comune, ha potuto scoprire che Luigi era in realtà il secondo nome di tal Paolo Crovella, nativo appunto di San Sebastiano, la cui data di nascita coincideva perfettamente con quella dell’ignoto Louis Crovelle. L’enigma venne così finalmente risolto. Ora, nel cimitero del piccolo borgo situato sulla sponda destra del Po nell’area metropolitana di Torino, è stata posata una lapide che ricorda la quattordicesima vittima piemontese del Titanic, il cui corpo si è perduto per sempre nei fondali dell’Oceano.

Carlo Fey, nativo di Tina (nei pressi di Ivrea), diciannovenne, è la quindicesima vittima piemontese del Titanic: la sua identità è stata scoperta grazie alla perseveranza di Claudio Bossi. L’arcano relativo a Carlo Fey è stato risolto soltanto nel 1990. Il fatto è che questo garçon addetto al ristorante À la carte era stato registrato, per un errore di trascrizione, come nativo di “Fina”. Nessun comune italiano corrispondeva a questo toponimo, per cui la vera identità e il vero luogo d’origine di questo giovane cameriere è rimasta un mistero per quasi ottant’anni. Bossi ha avuto l’intuizione che potesse trattarsi di Tina, ora frazione di Vestigné, ma che ai tempi del naufragio era un comune autonomo.  Scartabellando tra i registri anagrafici d’epoca, trasferiti e custoditi negli archivi del comune di Vestigné, si è così potuto scoprire l’esatta località di origine di questo sfortunato cameriere piemontese, vittima del naufragio più tragicamente noto del primo Novecento.

Chi volesse approfondire i contenuti delle ricerche di Claudio Bossi, ed ulteriori interessanti notizie sul Titanic, può consultare il sito: http://www.titanicdiclaudiobossi.com/Index.htm

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino", "Statue di Torino" e "Ponti di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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