La Fera dij Vin, gloria e declino di un’attrazione carnevalesca torinese
TORINO. Giostrine alla francese con i cavalli a dondolo, automobiline e mini-autobotti dei pompieri, calci-in-culo, gabbie che sfidavano la legge di gravità (sottoponendo gli intraprendenti fruitori a prove di esercitazioni astronautiche ante litteram), ruote panoramiche, aeroplanini che lanciavano lampi ed impulsi per simulare scariche di mitraglia ai velivoli nemici, otto-volanti monumentali, baracconi con preannunciate e deludenti Virginie al bagno, donne-cannone, e a terra (e per aria) un mare di coriandoli e di stelle filanti. Le voci suadenti di procaci giostraie che strizzavano l’occhio ai militari in divisa per farli cimentare con il tiro a segno, con fucili ad aria compressa dal tiro volutamente sbilanciato per non farli vincere mai; i gridolini eccitati dei bimbi che pescavano minuscoli pesci rossi nelle bocce d’acqua; i tonfi dei punch-ball presi di mira da ragazzoni che ostentavano muscolature da contadini; il frastuono delle automobiline elettriche dell’autoscontro: il sibilo dei loro motori elettrici in accelerazione, e il suono sordo dei paraurti in gomma che si urtavano frontalmente tra le risate delle ragazze alla guida, prese di mira da arrembanti equipaggi maschili… Il profumo del torrone, delle caldarroste, del mandorlato appena tostato… Questi i suoni, i rumori, gli odori, l’incanto (che ci sono rimasti nell’immaginario) del Luna Park di Piazza Vittorio, tappa obbligata per tutti i Torinesi di ogni età, nel frenetico periodo di Carnevale fino ai primi Anni Ottanta del Novecento. L’afflusso oceanico della folla iniziava già da Piazza Castello, inondando Via Po di persone di ogni età, censo e professione.
E poi, la tappa d’obbligo alla Fiera dei Vini, la Fera dij Vin, ogni anno sempre un po’ itinerante (a volte era allestita nella stessa Piazza Vittorio, a volte in Piazza Carlo Alberto); in altre occasioni, era molto più decentrata, come quando venne posizionata in Piazza d’Armi o al Parco Ruffini (allora da tutti chiamato “Valentino Nuovo”). Qualcuno ricorderà quell’anno in cui andò miserabilmente a fuoco, nelle prime ore di una gelida notte di febbraio, poco dopo che i battenti erano stati chiusi: fortunosamente non ci furono vittime.
Da molti anni, ormai, il tradizionale Luna Park di Piazza Vittorio, e il suo naturale corollario, la Fiera dei Vini, sono emigrati al Parco della Pellerina. Certo, le giostrine del nuovo Luna Park, immenso e magnetico, come una città fantastica ed incantevole di suoni, colori e luci fantasmagoriche, restano un’opportunità irrinunciabile per migliaia di bambini (lo sanno bene i loro nonni e i loro genitori!), così come certe mastodontiche e intriganti attrazioni tradizionali (come i Castelli incantati, o i Vascelli fantasma) continuano a sedurre centinaia di ragazzi e ragazze, che vogliono sfidare ed esorcizzare paure sedimentate ed inconsce, reali o immaginarie. E molti di loro, dopo qualche scorribanda tra le attrazioni del moderno Luna Park, entreranno certo ancora nei padiglioni della Fiera dei Vini.
Ma la Fiera dei Vini di una volta, la mitica Fera dij Vin, era qualcosa di diverso. Era un ritrovo carnevalesco, ma soprattutto un luogo di socializzazione e di oblio, dove si respirava il profumo inebriante di porchetta affumicata, mischiato a quello degli invitanti panini al salame o alla toma di Lanzo, di carciofi alla giudea, di salsiccia alla griglia, tra l’aroma inconfondibile dei salamini affogati nella polenta, da annaffiare con caraffe debordanti di barbera e grignolino.
Anno dopo anno, la Fiera dei Vini ha perso molto di quell’antico charme novecentesco, quel fascino che ammaliava i giovani (alla Fera dij Vin, i primi bicchieri di vino, bevuti con gli amici, rappresentavano una sorta di bolla, di lasciapassare che sanciva l’entratura nel mondo dei grandi), e che incantava gli adulti e gli anziani. Lì si poteva gustare e subire l’intontimento del frastuono di una piòla immensa, una ciclopica osteria, capace di accogliere centinaia di avventori, che pur essendo tra loro sconosciuti, diventavano amici per magia, ed insieme fraternizzavano, cantavano, suonavano, giocavano a carte, dimenticando, bicchiere dopo bicchiere, almeno per qualche ora, il peso del lavoro e della fatica quotidiana di vivere.