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In gita a… Monticello d’Alba, dove svetta una severa fortezza trecentesca

MONTICELLO D’ALBA. In questo consiste la bellezza del Piemonte, che mai si cavalca tre o quattro miglia che non si trovi qualche terricciuola” con le sue mura merlate e il suo castello signorile: così scriveva nel 1566 l’ambasciatore veneziano presso la corte di Savoia, aggiungendo che “il numero delle castella che vi sono è notabilissimo, e se dirò che passino i novecento non le dirò bugia”. L’ambasciatore documentava così un tratto caratteristico del paesaggio piemontese, la presenza di una fitta trama di castelli e di borghi fortificati, che ancora oggi, malgrado i guasti delle guerre e l’inesorabile fluire del tempo, possiamo osservare come elemento qualificante del nostro territorio.

Tra i più rilevanti esempi di “residenza fortificata” del Piemonte vi è senza dubbio il castello di Monticello d’Alba, che si erge con la sua sagoma possente in cima all’altura a cui è aggrappato il nucleo più antico del paese. La località si trova nel cuore di quella distesa di colline sabbiose che si sviluppano alla sinistra del Tanaro e che, nel corso del Novecento, per darle un’identità geografica e storico-culturale distinta da quella delle più celebrate Langhe (destra Tanaro), è stata battezzata con il nome di “Roero” dal potente casato astigiano (i Rotarii, poi Roero) che, articolato in più rami, per lunghi secoli ha esercitato la propria egemonia su questi luoghi, acquisendo feudi e costruendo castelli.

L’aspetto esterno del castello è quello tipico d’una fortezza medievale trecentesca, conservatasi sostanzialmente integra, ma l’origine della presenza fortificata in loco è ben più lontana nel tempo, facendosi risalire al X secolo quando i Vescovi di Asti, per rafforzare i confini del contado travolto dalla devastante calata dei Saraceni, giunti a saccheggiare Alba nel 920, decisero l’erezione sulla collina di Monticello di un primitivo castrum. La fortificazione venne poi gravemente danneggiata tra il 1187 e il 1190 durante l’assedio degli Albesi, chiamati dal vescovo di Asti per cacciare i signori De Govono che, al tempo titolari del feudo, avevano tentato di emanciparsi dall’autorità vescovile. Con l’investitura del feudo alla famiglia astigiana dei Malabaila, formalizzata nel 1348, si provvide alla ricostruzione della fortezza che, di lì a poco, a seguito dalla rivolta degli abitanti del paese, insofferenti al governo tirannico di Ludovico Malabaila, sarebbe passato ad un’altra nobile e ricca famiglia astigiana, i Rotarii, poi divenuti Roero. L’avvicendamento tra le famiglie avvenne nel 1372 quando Percivalle Roero ricevette dal vescovo, come ricompensa dei servigi resi in difesa dei diritti della Chiesa astigiana, i feudi di Monticello e di Castagnito.

Nell’apparato decorativo del castello ricorre più volte, dipinta e scolpita, l’arme dei Roero, formata da tre ruote d’argento in campo rosso e sormontata da un guerriero munito di clava che regge il cartiglio con il motto a bon rendre. Stando alla tradizione encomiastica di famiglia, le tre ruote farebbero riferimento alla gloriosa impresa compiuta in Terra Santa dal condottiero fiammingo Guillaume Guillon (Guglielmo Ghiglion), indicato come capostipite del casato dei Rotarii, che, durante la Crociata del 1099, avrebbe sfidato a singolar tenzone un capo dei nemici musulmani, reo d’aver insultato la fede cristiana, sconfiggendolo e decapitandolo. Sempre secondo il racconto i soldati di Ghiglion trasportarono poi il corpo senza vita dell’infedele utilizzando un carretto a tre ruote (quelle raffigurate nello stemma dei Roero), in luogo di quattro, in segno di spregio.

Tra i tanti personaggi illustri appartenenti al passato della famiglia ricordiamo Bonifacio Rotario (Roero), caduto prigioniero durante la spedizione militare nota come “Crociata di Smirne” indetta da papa Clemente VI per indebolire la pirateria musulmana nel mar Egeo: tornato in patria, fu lui nel 1358, per sciogliere un voto, secondo alcuni legato al rilascio dalla prigionia, secondo altri alla liberazione di Asti dalla dominazione viscontea, a salire per primo sulla vetta del Rocciamelone, al tempo creduta la cima più alta delle Alpi, deponendovi come atto devozionale un trittico in ottone (altarolo portatile) inciso a bulino, di fattura fiamminga, conosciuto come il “trittico del Rocciamelone”. Raffigurante la Madonna con il Bambino attorniata da San Giovanni Battista e da San Giorgio che trafigge il drago, la preziosa opera è oggi custodita nel Museo Diocesano d’Arte Sacra a Susa. 

Tornando alle vicende del castello, data fondamentale fu il 1787 quando vennero realizzati imponenti e radicali lavori di restauro, commissionati in occasione delle nozze tra Francesco Gennaro Roero, Viceré di Sardegna, e la marchesa Paola del Carretto di Gorzegno. L’aggiornamento stilistico e l’adeguamento degli spazi interni al gusto e alle comodità del tempo non privarono, però, la struttura esterna della connotazione fortificatoria originaria del Trecento. Venne sì colmato il fossato e rimosso il ponte levatoio, sostituito da una più agevole scalinata di accesso in pietra, ma si preservò sia la planimetria della dimora, caratterizzata dalla presenza agli angoli di tre torri, l’una diversa dall’altra nelle dimensioni e nella forma (rotonda, quadrata, ottagona), sia alcuni degli elementi tipici dell’architettura fortificatoria medievale, in particolare il passaggio di ronda con la merlatura “alla ghibellina” e la sequenza di caditoie, utilizzate per scopi difensivi in caso di assalto al castello, facendo precipitare grandi sassi sugli assedianti.

Gli interni, disposti attorno al cortile trecentesco, vennero invece in gran parte rimodulati, conferendo agli ambienti del primo piano, tra cui la Galleria di Diana Cacciatrice, il decoro e l’atmosfera tipici del Settecento piemontese. Altri spazi hanno preservato maggiormente il richiamo all’idea di Medioevo: tra questi, la Sala delle Armi, la prima che si attraversa nel percorso di visita, con una collezione di armature e armi di epoche diverse, e la Sala dei Quadri, che mostra alle pareti una quadreria con i ritratti degli antenati e sulla volta gli scudi dipinti con le arme di famiglie delle mogli dei figli maschi primogeniti della famiglia.

Il fascino del castello di Monticello deriva dall’integrità dell’involucro esterno, che mantiene la conformazione trecentesca, ma risiede anche nella continuità familiare dato che gli attuali proprietari, i conti Roero di Monticello, sono i discendenti della stessa famiglia che acquisì il feudo nel 1372: un concentrato di saperi, memorie, aneddoti, ricordi che continuano a vivere grazie alla dedizione e alla passione di chi attualmente abita questa prestigiosa dimora, valorizzandola e aprendola al pubblico. Oltre a godere della visita degli interni, è piacevole passeggiare nell’ampio parco, con impareggiabili scorci sulle colline del Roero, che alternano fasce boscate a vigneti, noccioleti e frutteti. L’area verde venne completamente ridisegnata secondo il gusto del “giardino paesaggistico” o all’inglese dal tedesco Xavier Kurten, architetto di giardini attivo per la committenza sabauda a Racconigi, Pollenzo, Agliè. Il parco all’inglese intende riprodurre la spontaneità della natura, lasciata apparentemente libera di crescere, con l’alternarsi di macchie d’alberi, distese prative, radure e prospettive pittoresche, capaci di aprirsi in modo inaspettato e tale da suscitare sorpresa nel visitatore.

Testo e foto di Paolo Barosso

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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