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Il castello di Rocca Grimalda e l’antico Carnevale della Lachera

ROCCA GRIMALDA. Nell’Alto Monferrato, su uno sperone roccioso a picco sull’ampia valle del torrente Orba, sorge il paese di Rocca Grimalda, strategicamente posto a guardia delle strade che collegano la costa genovese alla pianura alessandrina, attraverso il territorio dell’Oltregiogo ovadese.

Una veduta di Rocca Grimalda

Il toponimo originario, Rocca, si spiega con la morfologia del sito che, tra balze e scoscendimenti, è conformato in maniera tale da risultare facilmente difendibile, sede ideale per una postazione fortificata. Il vocabolo Grimalda venne aggiunto più tardi, in omaggio ai Grimaldi, illustre famiglia patrizia di radici genovesi, ramificata in più lignaggi, che nel 1570 acquistò il castello di Rocca dai precedenti proprietari, i Trotti, di nobiltà alessandrina, tenendolo per circa due secoli.  

Nucleo antico del castello di Rocca è la possente torre cilindrica di avvistamento, decorata alla sommità da un triplice ordine di archetti ciechi aggettanti, elemento tipico dell’architettura monferrina, che si riscontra anche nella torre di Roccaverano, simile per forma, datazione, apparato decorativo (anche se differisce per materiale, essendo in pietra e non in mattoni). Edificata tra XII e XIII secolo, la torre, che appare oggi priva del coronamento merlato, faceva parte in origine di una struttura fortificata destinata a ospitare le truppe di sorveglianza. Per secoli gli ambienti interni, sovrapposti su cinque piani e collegati da una scala elicoidale, illuminata da strette feritoie, furono adibiti a prigione, come ci indicano i graffiti incisi sulle pareti, gli anelli in ferro nella stanza più in alto e il “trabocchetto” al pian terreno (sezione mobile di un pavimento che si apre a comando facendo cadere l’intruso nel vuoto).  

Le fasi costruttive del complesso di Rocca Grimalda rispecchiano le vicende storiche e politiche che coinvolsero il feudo, inizialmente compreso nei domini dei marchesi aleramici del Monferrato, poi passato ai marchesi di Gavi, di ascendenza obertenga, e nel 1440 a Gian Galeazzo Trotti, capitano di ventura al servizio dei Visconti, che avevano preso il castello nel 1431. La nobile famiglia alessandrina dei Trotti, da cui il nome di Rocca Trotti assunto dal paese prima dell’avvento dei Grimaldi, abitò la fortezza per oltre un secolo, avviando gli imponenti lavori di ammodernamento e aggiornamento stilistico che la trasformarono in elegante dimora signorile. Il cantiere proseguì con i Grimaldi, che acquisirono feudo e castello nel 1570 e che fecero realizzare la maestosa facciata occidentale, ultimata a fine Settecento, la pregevole cappella interna decorata a trompe l’oeil e il giardino pensile, oggi inserito nell’elenco dei giardini storici del Piemonte.

L’estesa area verde, punteggiata di essenze autoctone e esotiche, comprende tre distinte sezioni: il giardino all’italiana, con la rigorosa simmetria di aiuole, viali e vasche, e le forme geometriche disegnate dalle siepi di bosso, il boschetto o giardino romantico, che digrada lungo il ripido fianco della collina scendendo verso l’Orba, e il giardino segreto, ricco di erbe aromatiche e officinali, d’ispirazione monastica medievale.

Le storiche cantine del castello, grandiose per dimensioni, ospitano l’attività di vinificazione delle uve coltivate nei terreni di proprietà della famiglia che oggi abita il maniero e che ha fondato l’azienda agricola Rocca Rondinaria, dal nome d’un insediamento romano la cui effettiva esistenza è rimasta per secoli sospesa tra storia e mito e che antiche leggende narrano fosse stato fondato per accogliervi gli schiavi addetti alla raccolta dell’oro contenuto nelle sabbie dei torrenti Orba e Piota. Il vitigno tradizionalmente presente in zona è il Dolcetto, da cui l’azienda, che ha ottenuto per i metodi utilizzati in vigna e in cantina il marchio “Agribiodinamica” e la certificazione biologica, ricava lo Spessiàri, Dolcetto d’Ovada Doc, e il Gesusio, Dolcetto di Ovada Superiore Docg o Ovada Docg.

Oltre al castello e alle suggestive vie del borgo storico, con l’antica chiesa di santa Limbania, sita in posizione dominante, quasi in bilico su una guglia rocciosa all’estremità sud-est del paese, una visita a Rocca Grimalda non può trascurare l’importante patrimonio folclorico custodito nel Museo della Maschera, nato nel 2000 per iniziativa del Laboratorio etno-antropologico presieduto da Vincenzo Cacciola. La fondazione del museo si deve principalmente alla presenza a Rocca Grimalda di un rituale carnevalesco dai tratti molto arcaici, noto come la Lachera, i cui personaggi esibiscono elaborati e variopinti costumi che mostrano rilevanti analogie con quelli utilizzati in riti simili ancora praticati in diverse regioni d’Europa.

Il Museo della Maschera è nato una ventina di anni fa

Il concetto di maschera, attorno a cui è impostato il museo, ci riconduce al Medioevo, quando l’atto di mascherarsi non si compiva celando il volto dietro un supporto esterno, bensì annerendo o imbrattando il viso: tale comportamento, pur tollerato durante il Carnevale, che era il momento della trasgressione, era malvisto dalla Chiesa, che lo considerava sacrilego perché il travisamento dell’identità e il travestimento alterano la natura dell’uomo, creato a immagine di Dio. Come si legge sul sito del Museo, il vocabolo “maschera” è connesso al termine “masca”, nel significato di “strega, fattucchiera”, di cui si trova menzione per la prima volta nell’Editto del re longobardo Rotari, raccolta di consuetudini promulgata nel VII secolo, e che si conserva nella lingua piemontese e in altre parlate.

La Festa della Lachera si tiene nel periodo del Carnevale

Con il tempo il termine ha assunto nuove sfumature di significato, dando origine a “maschera” nel senso di “finto volto fatto di vario materiale, indossato per alterare i lineamenti o non farsi riconoscere”. Il museo di Rocca, su questo tema, può vantare un “ricco patrimonio di reperti materiali legati all’abbigliamento cerimoniale connesso al ciclo calendariale”, maschere, indumenti, copricapi, accessori di fattura raffinata o effimera.  

Cuore del museo è naturalmente la sala espositiva dedicata alla Festa della Lachera, appartenente alla tipologia delle “danze armate” rituali, celebrata ogni anno nel periodo del Carnevale. Di origine molto antica, deriva probabilmente da pratiche propiziatorie dirette a ingraziarsi i favori della Natura per la prosperità agricola e a rinsaldare i legami interni alla comunità. Perduta però con il tempo la consapevolezza della funzione originaria, la Lachera è stata caricata di significati nuovi, allontanandosi dalle radici ancestrali, che affondano nel terreno del magismo contadino e dei culti pre-cristiani. Le danze della Lachera sono infatti spiegate come la memoria ritualizzata della ribellione popolare contro il feudatario di Rocca Isnardo Malaspina, vissuto nel XIII secolo, colpevole di aver abusato della propria posizione pretendendo di esercitare lo “ius primae noctis” su una giovane del posto, difesa dai sette fratelli con l’appoggio della comunità.  

Una volta smarrita la coscienza dell’ancestrale funzione propiziatrice legata al ciclo stagionale, le origini della festa sono state quindi caricate di un “contenuto insurrezionale” che non avevano mai avuto, vedendosi riflesso nelle danze rituali il ricordo di un atto di “eroismo” popolare: la rivolta comunitaria contro una supposta prevaricazione feudale, lo ius primae noctis, una pratica in realtà mai esistita, ma entrata a far parte dell’immaginario comune sul Medioevo. L’esistenza dello ius primae noctis come diritto facente capo al dominus loci o al signore feudale è stata confutata da tempo dagli storici medievisti, che evidenziano come una pretesa di questo tipo non avrebbe mai potuto configurarsi come il contenuto di un diritto (ius), bensì come l’esercizio di un abuso, che la giustizia medievale non avrebbe tollerato, ma punito con severità.

La lachera è una ballata probabilmente di origine irlandese

La credenza nello ius primae noctis, trasformato in una sorta di “mito folclorico” (Renato Bordone), scaturisce dall’erronea interpretazione di un’usanza medievale, il cosiddetto formariage, che consisteva nel pagamento d’una somma in danaro versata dal servo per ottenere il consenso a sposare una serva di un padrone diverso dal suo. I giuristi del Cinquecento, senza alcuna prova documentale, immaginarono che la prestazione monetaria fosse talvolta sostituita da un adempimento “in natura”, dando origine per passaggi successivi al mito dello ius primae noctis, ulteriormente alimentato in seguito dal pensiero illuminista, interessato a presentare negativamente il Medioevo come l’epoca dell’oscurantismo religioso e del privilegio aristocratico e diffondendo così vere e proprie invenzioni. La fortuna del mito dello ius primae noctis in diverse feste e manifestazioni popolari, come in quella di Rocca Grimalda, è dovuta all’intento di “valorizzare l’attitudine delle comunità locali di contrapporsi al potere” (Giuseppe Sergi).

Tornando alla Lachera, sono tre le danze rituali che vengono messe in scena dai personaggi: la “lachera”, da cui il nome della festa, ballata dai due “Laché”, i servitori, la “giga”, di probabile origine irlandese, eseguita dai Laché e dalla coppia di sposi, e il “calisun” danzato dalla sposa con i Laché. Nel contempo gli “Zuavi” incrociano le spade, formando un arco a protezione simbolica degli sposi, mentre i “Trapulin”, che portano una maschera con i baffi, fanno schioccare le fruste. In tempi recenti, ad arricchire il repertorio, si sono aggiunte la corenta e la monferrina.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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