Economia

E’ partita la raccolta delle mele, ora si attende la grande fiera novembrina di Cavour

CAVOUR. Tra gli appuntamenti più attesi dagli amanti della mela, coltivata in Piemonte sin da tempi antichi, spicca la manifestazione Tuttomele, ormai giunta alla 39ª edizione, che animerà dal 10 al 18 novembre il paese di Cavour, ai margini meridionali della fertile piana pinerolese. Aspettando l’evento, che vedrà rappresentate centinaia di varietà provenienti non solo dal Piemonte, ma da diverse aree del mondo, nei frutteti piemontesi è in pieno svolgimento la raccolta delle mele che, a seconda delle cultivar, inizia in agosto e prosegue nei mesi di ottobre e novembre.

Il 90% circa della produzione piemontese si concentra nella fascia pedemontana tra Torino e Cuneo, ma non mancano aree ad alta vocazione nelle altre province piemontesi. Tra queste citiamo la Val Curone nel Tortonese, l’alta Val Borbera, regno della mela Carla, che si distingue nella rosa delle antiche varietà piemontesi, in genere molto conservabili, perché va consumata fresca, le colline di San Marzano Oliveto nell’Astigiano, la Valle Sessera tra Biellese e Valsesia, in cui l’assenza di una frutticoltura specializzata ha favorito la sopravvivenza di cultivar tradizionali, come la Gran Alesander, che deve il nome, appartenuto a tre zar russi, Aleksandr, alla sua origine, ritenendosi sia stata importata dalla Russia nell’Ottocento, o la Presec di Coggiola, mela piccola e tonda che veniva cotta con il merluzzo, forse per alleggerire il piatto.

La coltivazione della mela (sotto il profilo botanico non un frutto, ma un falso frutto, detto pomo), il cui consumo nella forma selvatica (specie Malus Sylvestris) risulta comprovato sin dal Neolitico e descritto nelle fonti greche e latine, si diffuse nel corso del Medioevo soprattutto grazie all’opera dei monaci. Lo attestano ad esempio i cartari dell’abbazia cistercense di Staffarda che citano i possedimenti di Pomarolo, presso Verzuolo, dove i monaci coltivavano piante da frutto, in particolate mele, come evidenzia il toponimo. D’altronde è noto l’impulso dato dai “monaci bianchi” all’agricoltura attraverso l’estesa rete di grange, aziende agricole dipendenti dal monastero in cui lavoravano i conversi, religiosi laici adibiti a mansioni manuali.

E’ curioso notare come il consumo della mela nel Medioevo contrasti con la fama negativa che la pianta, in latino malus, aveva nell’immaginario comune. Per comprendere il punto occorre calarsi nella forma mentis dell’uomo medioevale, abituato a ragionare per simboli, interpretando le realtà terrene e tangibili come segni che rimandano ad altre realtà, astratte e spirituali.

Anche le piante facevano parte di questo simbolismo: il noce, ad esempio, pur producendo un frutto apprezzato, era considerato un albero nefasto, da cui tenersi lontani (addormentarsi sotto le sue fronde significava prendersi febbre e mal di testa o cadere preda del diavolo), perché la sua natura maligna era rivelata dal segno linguistico. Il nome nux, noce in latino, lo si legava al verbo nocere, nuocere: una falsa etimologia che, però, al tempo era ritenuta rivelatrice di verità, perché è nel nome che risiede l’essenza delle cose e il nome ne indica la vera natura, diabolica o benigna. Stesso procedimento vale per il melo, che una tradizione medioevale, basandosi sul doppio significato di malus, melo/male, identificò con la pianta del frutto proibito del Genesi, causa del peccato originale. Da qui derivò per l’uomo medioevale, che pur ne consumava i frutti, la rappresentazione del melo come albero nefasto.

Fu dall’Alto Medioevo che la cura per le piante da frutto si diffuse in Piemonte, con alberi sparsi nei campi, ma che si infittivano attorno alle abitazioni: dal XIII secolo comparve nelle pianure la tecnica dell’alteno, con le viti tenute alte e appoggiate non a pali, bensì a tutori vivi, olmi, salici, aceri, disposti in filari, ma anche piante da frutto, tra cui mandorli e meli.  

Nel settore agricolo il Settecento fu il secolo delle innovazioni tecniche (nel 1729 si fondò a Torino l’Orto Botanico dell’Università, nel 1785 la Società Agraria), mentre nell’Ottocento si divulgarono le nuove nozioni tra i contadini con le Cattedre Ambulanti e i Comizi Agrari. Nel 1822 si inaugurò in San Salvario il vivaio dei fratelli Burdin di Chambéry, che introdusse in Piemonte pregiate cultivar di frutta e di cui rimane traccia nel nome di via Belfiore che attraversa la parte del quartiere un tempo occupata dai vivai.

Dai primi decenni del Novecento, con l’affermarsi della melicoltura specializzata, s’imposero varietà straniere, in particolare la rossa Red Delicious e la gialla Golden Delicious, importate dall’America, la neozelandese Gala e la giapponese Fuji. Risale a tempi recenti il riconoscimento dell’Indicazione Geografica Protetta (Igp) alla Mela Rossa Cuneo, prodotta utilizzando i gruppi varietali Red Delicious, Gala, Fuji e Braeburn.

L’omogeneizzazione varietale che ne seguì non cancellò però le antiche varietà di mele piemontesi, che sopravvissero nelle aree marginali. Tra queste cultivar, oggi riportate alla ribalta, spiccano le mele rugginose, con il tipico strato suberificato che riveste la buccia, ruvida al tatto, carattere che si rispecchia nei nomi delle singole varietà, in cui compare Gris o Rusnent: è il caso della Grigia di Torriana, ideale per la cottura in forno, diffusa nell’area di Barge, Bagnolo e Cavour.

Altro raggruppamento è quello delle Calville, originarie di Calleville in Alta Normandia, tra cui la Calville Rouge d’été e la Calville Rouge Sanguinola, provenienti dai vivai Burdin, tutte rappresentate nella collezione pomologica del torinese Museo della Frutta, che espone oltre mille frutti artificiali creati con tecnica originale da Francesco Garnier Valletti (1808-1889).

Alla famiglia delle Renette, dal francese reinette, reginetta, appartiene la Renetta grigia francese, che in Piemonte cresceva “bella, grossa, squisita, come a Parigi” (Gallesio), e le varietà chiamate Ravè dalla forma appiattita del frutto, simile ad una rava (rapa), e Carpendu, dal francese court pendu, per via del peduncolo corto.

Vari i criteri di scelta dei nomi varietali: il proprietario della pianta numero uno (Dominici, Ross Tomasin), la località d’origine (Bella di Barge), le qualità del frutto (Ciocarin-a, a forma di campana, Verdun, dalla buccia verde, Bianc Brusc, dal sapore acidulo) o una sua attitudine. A quest’ultimo caso si riconducono le varietà Gris d’la Compòsta, Pom d’la Compòsta, Rusnent compòsta, che a fine inverno venivano immerse in recipienti colmi d’acqua, ricoperti con paglia di segale, sacchi di tela o lose di Luserna, e fatte fermentare sino a tarda primavera, quando i pom an compòsta erano pronti per il consumo, frizzanti e dissetanti.

Oltre al consumo fresco, le mele di scarto si adoperavano per l’aceto e per l’alcool, ma anche per l’antica usanza del Vin ëd Pom (vino di mele), bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione delle mele, già frantumate e spremute in torchio, insieme con le vinacce.

L’abbazia di Santa Maria a Cavour

Per scoprire questi e altri aspetti del mondo della mela è quindi imperdibile l’appuntamento novembrino a Cavour, fiorente borgo agricolo che fonda la sua prosperità sull’allevamento bovino di razza piemontese, sulla produzione di salumi e insaccati e sulla coltivazione della frutta. Sovrastata dalla Rocca, imponente masso granitico affiorante dalla piana e abitato sin dal Neolitico (sul versante est sono state ritrovate le più importati pitture rupestri delle Alpi occidentali, datate al V millennio a.C), la località è ricca di memorie storiche: qui si stipulò nel 1561 la Pace di Cavour tra delegati valdesi e duca di Savoia, mentre la cripta dell’abbazia di Santa Maria, fondata nell’VIII secolo, distrutta dai Saraceni e ricostruita nell’XI secolo, conserva il più antico altare del Piemonte, formato da tre basi sovrapposte di colonne romane. Nell’annesso museo archeologico si espongono reperti provenienti dal sito di Forum Vibii Caburrum, municipio fondato dai Romani nel 49 a.C. nel territorio dei celto-liguri Caburriati, poi distrutto durante le invasioni barbariche e ricostruito dai Longobardi a nord della Rocca nel VI/VII secolo.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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