La grandi pandemie dell’Ottocento a Torino e in Piemonte
Il XIX secolo fu un periodo nero per le pandemie in Europa: colera e vaiolo dilagarono anche nella nostra regione, a più riprese, mietendo centinaia di vittime. Cessato il contagio, nei decenni successivi, furono risanati interi quartieri della città, come il Moschino e Vanchiglia, particolarmente colpiti dal colera.
Il colera è una malattia endemica, originaria di alcune zone asiatiche, e soprattutto dell’India. Fu Vasco da Gama il primo a descrivere questa malattia nel suo diario di viaggio, quando nel 1490 si trovò ad esplorare il delta del Gange. Definito anche “morbo asiatico”, a motivo della sua originale provenienza, il colera è causato da un batterio o vibrione (vibrio cholerae), che s’introduce nell’organismo attraverso l’apparato digerente.
In Italia, l’ultima epidemia di colera si diffuse a Napoli nell’estate del 1973, con circa mille ricoveri all’Ospedale Cotugno; altri focolai si registrarono a Latina e a Caserta. L’epidemia fu arginata con un’efficace azione di vaccinazione di massa, e con un cospicuo spargimento di creolina ed altri disinfettanti per le strade.
Nel corso dell’Ottocento, a causa dell’intensificazione dei traffici commerciali tra l’Inghilterra (ed altre potenze economiche e marittime europee) e le Indie, intensificazione favorita dall’uso delle navi a vapore, il colera (ma anche il vaiolo, oggi pressoché definitivamente debellato grazie ai vaccini) cominciò a diffondersi su quasi tutto il pianeta.
Il colera dilagò in diverse città europee, causando diverse pandemie nel corso del XIX secolo, di cui sei si diffusero (con diversa intensità) anche in Italia: la prima tra il 1835 e il 1837, la seconda nel 1849, la terza tra il 1854 e il 1855, la quarta tra il 1865 e il 1867, la quinta tra il 1884 e il 1886 e l’ultima nel 1893.
Per il Piemonte, l’epidemia più grave fu sicuramente quella degli anni Trenta dell’Ottocento. Il 1835 fu per Torino un annus horribilis, per la diffusione ormai pandemica in tutta Europa del “Cholera-Morbus asiatico”. Le prime avvisaglie dell’epidemia colerica furono segnalate in Russia già all’inizio del decennio. Ma la diffusione del morbo cominciò presto ad estendersi verso Ovest, colpendo gradualmente la Polonia, l’Ungheria, l’Austria e la Francia. Il morbo da Parigi scese a Marsiglia e a Nizza, e di lì si spostò in Liguria, e attraverso le Alpi, arrivò a Cuneo e Savigliano, per poi estendersi lentamente verso il Sud della penisola. La pandemia si sarebbe esaurita solo alla fine del decennio.
La Gazzetta Piemontese del 15 agosto 1835, in cronaca cittadina, riportava questa drammatica notizia: “Dobbiamo purtroppo annunziare che il colera si sta estendendo nei Comuni della provincia di Cuneo: i luoghi sinora infetti sono i seguenti: Andonno, Bernezzo, Borgo San Dalmazzo, Caraglio, Centallo, Chiusa, Roccavione, Tarantasca, Valdieri, Vernante, Vignolo, Villafaletto. La malattia si è pure dilatata sino a Mondovì, ove è seguito un caso di morte, ed in qua sino a Racconigi…”.
Il 24 agosto 1835 fu registrato il primo morto di colera anche a Torino, tale Giovanni Som, barcaiolo trentottenne: abitava al Borgo del Moschino. Erano passati solo diciotto anni dalla prima epidemia di vaiolo, che aveva mietuto in città 281 vittime. Un vero incubo, che si era ripetuto tra il 1823 e il 1824, con altri 202 morti a Torino; un’ulteriore ondata epidemica di vaiolo, nel 1829, aveva contagiato 4.000 persone e causato ben 785 vittime. Ed ora, ci si metteva anche il colera, ormai presente in città, a rappresentare una minaccia che si prospettava non meno paurosa. I Torinesi seguivano con ansia il dilagare del contagio attraverso l’Europa, e paventavano con apprensione l’arrivo del terribile vibrione.
Il morbo arrivò puntualmente sulle rive del Po: a Torino, infuriò meno che altrove – furono 349 i casi accertati, contro i 4.051 di Genova – ma il tasso di mortalità si rivelò altissimo: i decessi per colera furono 220, con una percentuale che superava il 60% dei malati. Ad essere più esposte, erano le persone più indigenti, che vivevano in abitazioni sovraffollate, con precarie condizioni igieniche personali, e con un’alimentazione spesso insufficiente.
Era un periodo in cui dilagavano tanto l’ignoranza quanto la superstizione, e la scienza medica era ancora ferma alle sanguisughe, ai salassi, ai decotti ed agli infusi di erbe. Per debellare il morbo, come si legge in un opuscolo sul colera, edito all’epoca del contagio, si suggerivano rimedi empirici, la cui efficacia era a dir poco discutibile. Come questo, ad esempio, proposto da un certo dottor Ceresole: “per lenire gli spasimi che caratterizzano il decorso di questa malattia, assumere una mistura di sciroppo d’aglio, laudano, sugo di limone ed olio”. Un tal dottor Rulfi prescriveva invece “un miscuglio di calomelano (cloruro di mercurio), oppio e valeriana, da assumere per uso interno”.
Altri medici, constatando come il sangue dei colerici fosse “nero, carico di fiocchi, quasi veicolo del principio contagioso”, si attenevano alle “cacciate” di sangue e all’uso del ghiaccio. Altri ancora prescrivevano vermifughi oleosi (a base di calomelano o infusioni di corallina, una sorta di alga rossa), oppure somministravano amari e tonici, come se la malattia si potesse risolvere con l’assunzione di un bicchierino di vermouth. C’era chi sosteneva che “il miglior modo di amministrare questi rimedi è di applicarli ad ampi impiastri a tutto l’addome, o per mezzo di rinnovate frizioni, giacché sollecitando i nervi sottocutanei, si porta una salutare modificazione ai nervi profondi del sistema gangliare”. Altri rimedi erano i narcotici, specialmente l’estratto d’atropa-belladonna, e la morfina applicata all’epigastro, oppure gli evacuanti e i purganti (come il calomelano solo, o unito all’oppio) e la flebotomia (“la cavata di sangue, con l’uso di mignatte all’epigastro o applicate all’ano”).
Superata finalmente la pandemia di colera che colpì Torino nel 1835, gli amministratori comunali cominciarono a pensare al risanamento di alcuni quartieri, particolarmente colpiti dal morbo ed abitati prevalentemente dalle classi più povere della città, come il “Moschino” (così chiamato per essere infestato da zanzare e moscerini). Si estendeva lungo il Po, tra l’attuale piazza Vittorio e corso San Maurizio, ed era abitato prevalentemente da barcaioli, pescatori, carrettieri, tintori e lavandaie, osti ed ostesse, le cui fatiscenti abitazioni e botteghe rischiavano di rappresentare dei focolai permanenti di contagio infettivo. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, il Moschino lascerà spazio ai Murazzi, diventando un gradevole luogo di passeggio lungo le sponde del Po.
Altre zone a rischio erano considerate il Ghetto ebraico e il Borgo Vanchiglia. Il risanamento di Vanchiglia fu coordinato da Alessandro Antonelli, il geniale costruttore della Mole e della “Fetta di Polenta” (nota anche come Casa Scaccabarozzi), a partire dal 1851-1852, grazie al Piano d’ingrandimento della Capitale. Non tutti i mali, direbbe qualcuno, vengono per nuocere. Io direi: persino dai mali peggiori, può scaturire qualcosa di positivo.