Torino e Vienna si contendono il primato dei caffè storici più raffinati
Qual è il caffè più antico della città? Difficile a dirsi. Del resto, ciò che conta davvero, è il fascino di questi locali, espressione di uno stile di vita tipicamente torinese.
Torino si contende con Vienna il primato dei caffè storici più raffinati d’Europa. Alcuni di questi locali sono autentiche perle di rara bellezza, con arredi barocchi e boiseries intagliate a mano, con lesene e volute, specchiere dalle cornici dorate e soffitti splendidamente decorati con stucchi ed affreschi, spesso realizzati dagli stessi artisti che operavano alla corte dei duchi e delle famiglie aristocratiche della città. Nei caffè storici torinesi sono state scritte le più gloriose pagine di storia del nostro Paese, si sono confrontate idee politiche, si sono dibattuti pensieri filosofici, si sono forgiati e alimentati fermenti rivoluzionari e risorgimentali, si sono scritte trame di saggi e di romanzi che sono diventati dei punti fermi della scienza e capolavori della letteratura italiana e straniera. Ai tavoli, si sono incontrate coppie di innamorati, si sono tessute storie clandestine, si sono sussurrate parole dolci di corteggiamento, si sono diffusi pettegolezzi e malignità, mentre si degustavano le squisitezze di maîtres pasticcieri e cioccolatieri (ghiottonerie uniche di un’arte che a Torino s’è sviluppata e perfezionata nei secoli e che non aveva, e ancor oggi non ha, rivali in Europa e nel mondo), o mentre si centellinavano bicchierini di fernet, di cognac, di sambuca, di vermouth e di assenzio.
Ma perché proprio a Torino c’è una concentrazione così massiccia di caffè storici, tanto chic e così famosi nel mondo? La risposta è semplice: Torino è stata per secoli la piccola capitale di un piccolo Stato, città-salotto di uno Stato-salotto, raccolto, orgoglioso della sua storia, della sua peculiarità, dove il senso della sobrietà è innato in ogni strato della società, persino nelle classi più popolari, che hanno sempre usato una lingua musicale (il piemontese, oggi parlato solo più da pochi torinesi), senza eccessi, quasi sommessa, anche quando risuonava nelle botteghe e nei mercati. Uno stile di vita. Un modo di essere. Anche i caffè sono espressione di questo stile di vita: per quanto eleganti siano gli arredi e per quanto garbati siano i gesti di chi serve al banco o ai tavoli, non c’è mai ridondanza ed opulenza sulle pareti e nei banconi, ma raffinata armonia di linee e di colori, né c’è affettazione nella gestualità e nelle parole di chi li frequenta o da parte del personale di servizio.
Che siano poi così numerosi i locali di questo tipo, è perché la città, piccola come estensione e con relativamente pochi abitanti, è stata per secoli sede di una corte, prima ducale e poi reale, con un apparato statale a tutto tondo, sede di Comandi di Corpi militari, di Accademie, Corpi diplomatici, sedi di Ambasciate e con decine di palazzi scelti come residenza di facoltose famiglie aristocratiche, non necessariamente di origine torinese, spesso provenienti da altre località di provincia, che avevano tuttavia ritenuto opportuno acquistare o erigere palazzi a Torino, per fissare la loro residenza nella capitale, centro e fulcro della vita politica, e anche mondana, dello Stato sabaudo. Incrociare la nobiltà torinese lungo le strade della città o nei locali pubblici, o scorgere qualche componente della famiglia reale girare in carrozza tra le strade urbane, è sempre stato un fatto normale a Torino. In uno stesso palazzo dell’aristocrazia, convivevano del resto sia le famiglie nobili (insediate al primo piano, detto anche, per l’appunto, “piano nobile”), sia le famiglie della servitù e dei ceti popolari. Era abitudine, infatti, locare gli appartamenti degli ultimi piani a artigiani, commercianti, operai e operaie: nobili e gente del popolo s’incontravano e si salutavano quotidianamente sugli scaloni o negli androni di uno stesso aulico palazzo torinese. Un’ “eterosi” sociale che poche altre città hanno conosciuto. I caffè storici erano frequentati normalmente anche da famiglie borghesi e popolari. Certamente, nei locali più alla moda, erano banditi sia il gioco delle carte, le scommesse, la morra, ed ogni eccesso di libagione: per questi svaghi, al popolo erano riservate le bettole e le osterie del vecchio quadrilatero romano, antesignane delle piòle di periferia del Novecento.
E ci piace pensare che nelle contrade più malfamate della città medievale, e andando via via a ritroso nel tempo, lungo l’asse del cardo romano o del decumano di Augusta Taurinorum, o tra i viottoli sterrati della Taurasia celtica, già si ritrovassero decine di uomini d’arme, scudieri, ma anche notabili o amministratori del potere, e semplice gente del popolo, in qualche “taberna”, lontane antesignane dei caffè, per annaffiare le loro gole con vini inebrianti, o bevande che annebbiavano le menti. E chissà se quelle taverne avevano già un tocco raffinato di torinesità ante litteram.
In realtà i caffè storici torinesi, così come oggi li conosciamo, e che sono – ormai a pieno titolo – entrati nei circuiti turistici internazionali, cominciarono a fiorire nel Seicento, per poi proliferare nel Settecento e nell’Ottocento.
Difficile dire qual è il caffè storico più antico di Torino. Certo, esistono caffè che viaggiano sull’orlo dei quattrocento anni, come il Caffè San Carlo, all’angolo di Piazza San Carlo con Via Santa Teresa, coevo del tracciato della piazza voluta da Madama Cristina sul modello delle auliche places royales parigine. Tra i primi interventi architettonici pensati da Emanuele Filiberto, non appena trasferita a Torino la capitale del Ducato, ci fu sicuramente la risistemazione di Piazza Castello. Tutti sanno che sotto i portici della piazza esistono due eleganti caffè, noti in tutto il mondo: sono il Caffè Baratti e il Caffè Mulassano. Il primo è sicuramente coetaneo della costruzione della Galleria San Federico, e quindi non ancora esistente a fine Cinquecento. E neppure il secondo lo era, ma è molto probabile che nell’ariosa piazza in cui Emanuele Filiberto aveva scelto di insediarsi a Palazzo, doveva pur esserci qualche confetteria o qualche locale attrezzato per distribuire bevande alcoliche, con annessa distilleria o liquoreria. Un paio di secoli dopo, qui era in piena attività lo storico locale di Antonio Benedetto Carpano, proprio all’angolo con l’attuale Via Viotti (il locale era frequentato anche da donne, con apertura ad orario continuato): una lapide ricorda che lì (era il 1786) venne inventato il celebre vermouth Carpano.
Se il Caffè San Carlo può essere considerato, se non proprio il primo, sicuramente uno dei più antichi Caffè Torinesi, gli tiene probabilmente testa il locale ora occupato dal Caffè Torino, anch’esso posizionato in piazza San Carlo sullo stesso lato dei portici, ma in prossimità della via Alfieri. E poi c’è il Caffè Fiorio, in via Po 8, all’angolo con via Bogino, i cui natali risalgono al secondo ampliamento della città, in direzione del fiume Po, voluto da Carlo Emanuele II, e realizzato da Maria Giovanna Battista di Nemours in nome e per conto del figlio Vittorio Amedeo II. Ed è probabile che là dove sorge oggi il Caffè Pepino, in piazza Carignano, già nel Settecento fosse attivo un locale-caffetteria molto frequentato dai torinesi.
Il grande impulso che portò alla proliferazione dei Caffè Storici torinesi è motivato da almeno tre elementi. Primo: la maestria dei confettieri e pasticcieri torinesi, in grado di realizzare prelibatezze adatte a essere gustate al tavolo di un locale alla moda, magari in una saletta appartata. Secondo: la crescente diffusione del caffè come bevanda: a Torino, grazie alle caratteristiche organolettiche dell’acqua di cui gode la città, così vicina alle montagne, e all’attenta selezione della qualità dei grani abbinata ad una speciale tostatura, il caffè risultava (e risulta anche oggi) particolarmente delizioso. E infine, la diffusione del cacao, dapprima consumato solo come bevanda liquida, miscelato con il latte (cioccolatte), e poi utilizzato come materia prima dai maîtres chocolatier torinesi per la produzione di cioccolatini di qualità superiore. A Torino, capitale del Ducato di Savoia, il cacao giunse già attorno alla metà del Cinquecento, ad iniziativa di Emanuele Filiberto. Ma fu suo figlio Carlo Emanuele I di Savoia a diffonderne l’utilizzo a corte, o meglio sua moglie, Caterina Micaela d’Asburgo, figlia di terzo letto di Filippo II di Spagna, da lui presa in sposa nel 1585. Il cioccolato in tazza restò per lungo tempo a Torino una bevanda per pochi eletti, almeno fino al 1678, quando la reggente Madama Reale, la già citata Maria Giovanna Battista Nemours, concesse a Giò Antonio Ari (o Arri) la patente per la mescita della cioccolata in tazza. Ari fu il primo a farla diventare una bevanda popolare. Egli è altresì considerato il capostipite di una generazione di abilissimi artigiani cioccolatieri (e di intraprendenti gestori di locali, o se vogliamo, di “caffè” torinesi) le cui specialità resero la capitale sabauda famosa in tutta Europa. Certo è che un poco alla volta, tutti gli altri locali torinesi più alla moda, finirono per presentare anch’essi istanza di somministrazione della deliziosa bevanda à la page.
In effetti, che c’è di meglio di una mezz’oretta trascorsa seduti al tavolino di uno storico caffè torinese per gustare due giandujotti, due praline, due marrons glaçés o una deliziosa cioccolata in tazza, magari in compagnia di una bella tòta? Qualcuno obietterà: le tòte non esistono più. E allora mi correggo e dico: magari in compagnia di una bella… madamin. È vero o non è vero?