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Grosso Canavese, la chiesa campestre di San Ferreolo e i suoi preziosi affreschi

GROSSO CANAVESE. Tra le numerose testimonianze architettoniche della stagione romanica nel Ciriacese e basso Canavese, vi è la chiesa di San Ferreolo, immersa nelle campagne di Grosso Canavese,ai piedi delle grandi Vaude di Rocca e di Nole. Il piccolo edificio di culto, pur essendo attestato per la prima volta in documento del 1386 come dipendenza della pieve di San Martino di Liramo a Ciriè, si fa risalire come fondazione agli esordi dell’XI secolo e, secondo gli studiosi, mostra elementi caratteristici dell’architettura benedettina tanto da ritenere probabile la sua costruzione al tempo del vescovo di Torino Landolfo (1011-1035).

Esternamente si presenta nella sua composta eleganza romanica, con abside orientata (rivolta a est) e fornita di tre strette feritoie a doppia strombatura. La struttura muraria è in ciottoli di fiume, provenienti dal greto del poco distante torrente Banna (o Bendola), disposti a lisca di pesce (opus spicatum) e frammisti a laterizi, mentre l’unica concessione all’ornamento è la cornice di archetti pensili che corre lungo l’intero perimetro.

Come spesso accade nelle chiese romaniche campestri, l’essenzialità dell’aspetto esterno, semplice e disadorno, contrasta con la ricchezza pittorica o scultorea degli interni, ricchi di richiami biblici e simbolici a beneficio di fedeli e pellegrini. La chiesa di San Ferreolo, a navata unica e copertura a capriate in vista, non fa eccezione, come ci si accorge non appena varcata la soglia d’ingresso.

Le pareti appaiono infatti ancora parzialmente rivestite di affreschi. I più antichi sono quelli osservabili nell’area absidale, risalenti all’XI/XII secolo, e accostati da Augusto Cavallari Murat alla scuola pittorica di Reichenau, complesso abbaziale bavarese situato su un’isola del lago di Costanza, famoso per il prezioso ciclo di affreschi di epoca ottoniana raffigurante i miracoli di Cristo.

Nel catino absidale campeggia la figura ieratica del Cristo pantocratore assiso su un trono rivestito di broccato che, secondo il Cavallari Murat, unisce i modi dell’arte compendiaria romana all’esperienza bizantina. La stessa impronta si rileva osservando le figure degli apostoli che occupano il registro inferiore, tra le finestrelle dell’abside.

Lo studioso Aldo Moretto, che data gli affreschi al principio del XII secolo, riferendoli a una fase di “romanico avanzato” per “sicurezza compositiva e per estrema abilità e delicatezza cromatica”, vi riscontra, almeno in parte, influssi cluniacensi, rilevando assonanze con analoghe composizioni realizzate nei possedimenti benedettini di Berzé-la-Ville in area borgognona e di Regensburg (Ratisbona) in Baviera.

Più tardi, di fattura quattrocentesca, sono invece gli affreschi realizzati sulla parete di sinistra. Qui troviamo una delicata Madonna con il Bambino (o Madonna del latte), affiancata dall’arme dei Cavalleri, signori del luogo e committenti dell’affresco. Sembra che il volto della Vergine, realizzato nel 1472, riproduca i lineamenti della duchessa di Savoia Jolanda di Valois, menzionata nei documenti del tempo come “Yolant”, figlia del re di Francia Carlo VII e consorte del duca Amedeo IX detto “il Beato”.

Jolanda, che era solita qualificarsi, per rimarcare il rango reale, “primogenita e sorella dei cristianissimi re di Francia”, dimostrò notevoli capacità politiche e diplomatiche, assumendo su di sé la responsabilità di governo del ducato di Savoia sia nel periodo in cui le condizioni di salute del marito, affetto da epilessia, si aggravarono, impedendogli di fatto l’assolvimento dei doveri connessi alla posizione, sia dopo la morte di Amedeo IX, avvenuta nel 1472, esercitando la reggenza (inizialmente contrastata) in nome del figlio minorenne, Filiberto.

Tra le opere che testimoniano il buon governo di Jolanda, attenta alle esigenze dei sudditi, vi sono il più antico ospedale di Chambéry in Savoia e il Naviglio di Ivrea, fatto scavare nel 1468 a fini irrigui tra l’area eporediese e Vercelli, un’opera fondamentale di canalizzazione idraulica, che porta acqua attraverso le campagne dalla Dora Baltea al fiume Sesia, tanto avanzata per i parametri dell’epoca da meritare l’inserimento nella collezione di scritti e disegni di Leonardo da Vinci, poi raccolta nel cosiddetto Codice Atlantico (“Codex Atlanticus”).   

Tornando al ciclo pittorico della chiesa di San Ferreolo, notiamo anche la sottostante figura di San Bernardino da Siena, canonizzato nel 1450, a soli sei anni dalla morte, e molto venerato in Piemonte, e il grande affresco che propone il tema iconografico delle Virtù e della Cavalcata dei Vizi, di maniera quattrocentesca, con impronta goticizzante. L’opera, dallo stile popolaresco, vivo e diretto, si richiama a una tipologia diffusa nel tardo Medioevo nell’area alpina occidentale, tra Provenza, Piemonte, Savoia, Delfinato.

Il registro superiore è dedicato alle personificazioni femminili delle Virtù, ciascuna inserita dentro una nicchia e provvista di corona e di cilicio, simbolo di penitenza. A questa fascia si contrappone, in funzione di ammonimento morale, il registro inferiore occupato dalle personificazioni dei Vizi, rappresentati sempre da figure femminili tormentate da diavoletti e raffigurate in groppa a un animale, simbolicamente collegato al tipo di peccato capitale commesso, che le trascina verso la porta dell’inferno.

Secondo alcuni studiosi, in questa interpretazione del tema, s’intrecciano i modi tipici dell’arte quattrocentesca delle Alpi occidentali con varianti che richiamano l’area culturale centro-italica: ad esempio l’allegoria della Prudenza è resa da una donna dal triplice volto – giovane, maturo e anziano – tipizzazione adottata nel centro Italia, ed è connotata da due oggetti, il compasso, che evoca la misura nel giudizio, e lo specchio, che richiama la capacità di vedersi come si è, entrambe soluzioni riferibili all’iconografia medievale alpina.

Concludiamo queste breve visita con un cenno al dibattito riguardante la dedicazione a San Ferreolo, prete di origine greca e evangelizzatore della Franca Contea, dove è venerato come San Ferreolo di Besançon. Martirizzato nel 211/212 d.C., al principio dell’impero di Caracalla, gli sono intitolate parecchie chiese nel territorio tra Lione e Besançon, l’antica Burgundia, ma il suo culto è poco diffuso in area piemontese. Alcuni ritengono che l’intitolazione a San Ferreolo, nonostante sia già attestata nel documento del 1386, non sia quella originaria, anche perché si nota l’assenza di affreschi che lo raffigurano all’interno della chiesa, almeno tra quelli conservati e oggi visibili.

In base a ricerche effettuate, si è osservato che i luoghi di culto dedicati a San Ferreolo sono legati alle strade e al transito di pellegrini e viandanti, e tale considerazione appare coerente con la tradizione locale che riferisce di un itinerario pedemontano, tracciato in epoca romana e con il tempo caduto in disuso, che, attraverso il Canavese, metteva in comunicazione la valle d’Aosta con Avigliana e la bassa valle di Susa, connettendo poi quest’ultima con la Borgogna transalpina. Proprio seguendo le orme degli antichi pellegrini, che si muovevano lungo questo percorso alternativo, il culto di San Ferreolo potrebbe essere giunto dalle terre borgognone in quest’angolo di Canavese, anche grazie alla possibile mediazione di Guglielmo da Volpiano, figura di monaco riformatore e costruttore cui si deve la fondazione delle due abbazie dedicate a San Benigno, quella borgognona di Digione e quella piemontese di Fruttuaria.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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