Mestieri scomparsi: l’ombrellaio, una figura soppiantata dal frenetico ritmo del consumismo
In passato, quando l’economia familiare, vuoi per necessità, vuoi per un certo stile di vita, era caratterizzata dal risparmio e dal controllo degli sprechi, ogni oggetto della vita quotidiana era custodito con cura, e quando si rompeva, era d’obbligo la riparazione piuttosto che sostituirlo con un oggetto nuovo. Fin quando si poteva, ovviamente… Questo modo di pensare, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, ha favorito la proliferazione di tanti piccoli mestieri; permetteva a molti senza lavoro, di inventarsene uno, di specializzarsi nella riparazione degli oggetti. E tra questi oggetti c’era anche l’ombrello. A ripararlo ci pensava l’ombrellaio, un ambulante che quando il tempo cominciava a volgere al brutto percorreva a piedi o in bicicletta le strade principali del paesi e delle città, portando con sé un’attrezzatura costituita da pinze, filo di ferro, stecche di ricambi, pezzi di stoffe, aghi, filo, spaghi di vario genere.
In effetti, in passato gli ombrelli erano ritenuti oggetti di valore. Il loro prezzo era molto alto, per cui era assolutamente necessario ripararli quando si danneggiavano. Era uno spettacolo vedere arrivare l’ombrellaio, con la cassetta degli attrezzi (setacci e crivelli) e un abito curioso, spesso variopinto. Le signore si affacciavano alle finestre e gli portavano l’ombrello da aggiustare: lui rattoppava la tela, sostituiva le stecche che si erano deformate, riparava il manico. Così l’ombrello tornava in piena forma pronto per affrontare un’altra brutta stagione.Oggi non verrebbe nemmeno in mente di farsi aggiustare l’ombrello: sui mercati se ne trovano di tutti i tipi a partire da 8-10 euro. La produzione di massa, anche qui soprattutto orientale, ha trasformato questo antico mestiere. L’artigianato è diventato industria, ma l’arte ombrellaia più famosa al mondo è ancora quella italiana e ai piemontesi va una parte del merito.
Gran parte di questi artigiani provenivano dalla Val d’Ossola (proprio come gli spazzacamini di cui abbiamo parlato in un altro articolo). I lusciàt – così li chiamavano – rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie. Sovente non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava, appisolandosi, stanchi morti, sotto un cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile, quando tirava vento o scrosciava la pioggia. Già da piccoli s’apprendeva il mestiere, girovagando al seguito degli ombrellai adulti per le pianure piemontesi e lombarde, cercando di sfuggire alla miseria. Giravano come dei nomadi, portando a tracolla la cassetta nella quale erano riposti tutti i i ferri del mestiere: dalle stecche degli ombrelli, alle forbici, ai rocchetti di refe, ancora a pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare, sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande.
Piero Abrate