La castagna, ricca di amido, fu per secoli ingrediente essenziale nella dieta contadina, specialmente in montagna, e per questo l’albero che la produce, il castagno, originario dell’Asia Minore (alcuni fanno derivare il nome, Castanea in latino, dalla città di Kastanis nella regione anatolica del Ponto, menzionata da Plinio il Vecchio), venne omaggiato con l’appellativo di “albero del pane”. Il frutto, consumato fresco (arrostito, bollito) oppure trattato per prolungarne la conservazione sino a primavera, era talmente ricercato che, almeno sino all’introduzione della patata, i montanari delle quote più alte, dove il castagno non cresce, scambiavano con gli abitanti della bassa valle burro e formaggi per qualche sacco di preziose castagne.
Dall’importanza del castagno nell’alimentazione deriva anche la sua sacralità, mantenutasi
Diversi erano i metodi usati per conservare la castagna, garantendo una scorta destinata a durare per l’inverno. Fra le pratiche usuali vi era la cosiddetta curatura, meglio nota come “novena”, consistente nella sommersione in acqua delle castagne per nove giorni. Questa tecnica serviva sia a separare le castagne sane da quelle bacate, facilmente individuabili perché i frutti colpiti dal parassita, e quindi da scartare, rimanevano a galla, sia a prolungarne la conservazione, resa possibile dal formarsi all’interno della polpa, interessata da una leggera fermentazione, di piccole quantità di acido lattico.
Questi manufatti, ancora oggi visibili in montagna o in alta collina, specialmente tra i 500 e gli 800 metri di quota, sono costruiti in pietra e appaiono ripartiti in due ambienti sovrapposti, divisi da un graticcio. Nel vano inferiore ardeva la brace, mentre al secondo livello erano disposte le castagne che, esposte a un calore costante, seccavano. I frutti secchi erano poi riposti in sacchi di canapa e sbattuti con forza contro ceppi di legno perché si staccasse la buccia.
Le castagne secche, conservate in stanze asciutte e aerate, si consumavano in vari modi, normalmente ammorbidite nel latte, oppure le si macinava per ricavarvi una farina usata, nei periodi di magra, per la preparazione del pane, talvolta mescolata a quella di ghiande. Le castagne secche si potevano consumare anche in minestra: tipica del Biellese, dove il castagno è l’arbo, albero per eccellenza, è la minestra detta mac o mactabi, che unisce le castagne secche, lessate nel paiolo, al riso e al latte. In Ossola, invece, si impastano gli gnocchi con patate, zucca, farina di frumento e castagne.
La castagna, e in particolare il marrone, sono poi di largo impiego nella pasticceria piemontese,
La canditura comporta l’immersione del frutto nello sciroppo di zucchero, operazione da ripetersi più volte a diverse temperature per circa otto giorni, eseguita con il candissoire, bacino in rame con aperture di scolo sul fondo. Segue la glassatura, cioè il rivestimento del frutto candito con una miscela zuccherina.
Tra i dolci con le castagne spicca poi il Montebianco, forse d’origine svizzera, che accosta pasta di marroni, panna e rum su un disco di meringa, impasto di zucchero e albume montato a neve inventato secondo la tradizione da un pasticcere originario di Meiringen nell’Oberland bernese. Pare che la combinazione di crema di marroni e meringa sia nata dalla creatività del conte Nesselrode, diplomatico russo e gran gourmet.
L’esportazione di castagne e marroni valsusini ebbe tale successo che ancora a inizio Novecento a Bussoleno si contavano cinque ditte attive, tra cui la Cavargna, di cui si ricordano nel 1880 le prime spedizioni transoceaniche (a New York) di marroni.
Tra le testimonianze della grande estensione della civiltà del castagno, che in Piemonte raggiunse anche le fasce collinari, ricordiamo infine la cosiddetta Castagna granda, albero monumentale sito nelle campagne di Monteu Roero, appartenente alla cultivar detta “della Madonna” o “Canalina”, che, con i suoi 400 anni d’età, si è guadagnato la palma di esemplare più vecchio d’Europa.