Fé Rigolèt (fare Rigoletto) o spòrze gheuba (porgere la gobba), in piemontese significa approfittare della cortesia, della generosità e del bon ton altrui senza contraccambiare mai i favori ricevuti, rispondendo anzi alle generosità fruite con comportamenti al limite della scorrettezza. Caté a gheuba (letteralmente, comperare a gobba) significa acquistare oggi promettendo di pagare (forse) domani. Spòrze gheuba vuol anche dire trarre vantaggio da una situazione paradossale, o anche imbarazzante, di chi ci sta vicino, per coglierne un esclusivo profitto personale, fregandocene le mani, e allontanandoci senza fare una piega, e voltando anzi la schiena (la gobba) al malcapitato.
Per estensione, i vecchi piemontesi usavano la locuzione, o se vogliamo, la metafora spòrze gheba, in qualsiasi contesto in cui si manifestava una situazione di disequilibrio comportamentale, talmente palese, da apparire come un difetto in mala fede. Il senso è simile a quello di un’altra espressione piemontese: Fé ‘l fòl për nen paghé la sal (far lo scemo per non pagare il sale, cioè il tributo), che calza a pennello per chi fa di tutto, anche spacciandosi per fesso, pur di non pagare il dovuto. Espressione che va molto bene anche per coloro che fanno spallucce di fronte ad una sfortunata e accidentale situazione in cui si è ritrovato un loro interlocutore: ma chi assiste alla scena se ne va, facendo finta di niente, e volta la schiena.
Il contesto poteva anche essere quello sportivo: come quando in una partita di calcio, vinta all’ultimo minuto per un rigore discutibile concesso dall’arbitro, i giocatori della squadra vincente, infischiandosi della beffa ricevuta dagli avversari, se la ridono e se la godono, porgendo la schiena (la gobba) ai perdenti, in segno di indifferenza e sberleffo.
Ecco come nasce, secondo alcuni piemontesisti, l’epiteto di gobbi con cui i torinisti, i tifosi viola e in genere tutti i tifosi non juventini definiscono i giocatori bianconeri. E così, per estensione, la Gheuba diventa tutta la squadra, cioè la Juventus. Toccare la gobba a un gobbo, secondo una credenza popolare, è oltretutto anche un gesto scaramantico, con il quale ci si assicura (attingendola dal serbatoio di energia della prominenza dorsale) una buona dose di fortuna, e così – nell’immaginario collettivo non juventino – tutta la compagine bianconera diventa il prototipo della squadra baciata oltre misura dalla buona sorte.
Ricordo
Sta di fatto che questi termini, italianizzandosi, si sono man mano diffusi
Secondo altri, invece, i due termini risalgono a quando le prime casacche zebrate furono adottate dalla Juventus (era il 1903: prima di quella data, le maglie juventine erano rosate; dopo i primi lavaggi tendevano però a sbiadire moltissimo, diventando pressoché bianche, per cui gli studenti del Liceo Massimo d’Azeglio di Torino a un certo momento chiesero a un loro compagno inglese, che abitualmente trascorreva in patria le vacanze estive, di procurare loro una dotazione di maglie dai colori meno delebili: egli scelse quelle del Notts County, squadra della sua città, che erano appunto a strisce verticali bianche e nere). Le nuove casacche zebrate, essendo molto ampie, tendevano però a creare una protuberanza sulla schiena dei giocatori in corsa. Di qui sarebbe nato l’epiteto dei “gobbi”.
Secondo un’altra tesi, di genesi granata, i termini “gobba” e “gobbi” sarebbero invece nati negli anni in cui il Grande Torino dominava i campionati e i derby con la Juve, che era costretta a chiné ’l gheub (cioè a chinar la schiena) di fronte alla superiorità degli Invincibili. Fascino e mistero del pittoresco linguaggio sportivo.