L’ideatore di Slow Food e del Salone del Gusto parla di come si possa salvare il pianeta, a patto di puntare su un’agricoltura maggiormente compatibile
Secondo lei cosa significa dire che i territori rurali sono al servizio del Paese?
«Significa dire che sono una ricchezza incredibile su cui siamo seduti, un patrimonio che ci frutta ogni giorno cibo, bellezza, equilibrio ecologico, cultura, economia turistica. Il terreno fertile in quanto tale, anche se è in una proprietà privata, in realtà è un bene comune proprio come acqua e aria. E come tale andrebbe mantenuto e custodito. È di tutti perché la sua funzione è al servizio del Paese. Negli ultimi anni ne abbiamo consumato una quantità inammissibile, per via della cementificazione o di pratiche agricole intensive. Il terreno fertile è qualcosa di vivo che stiamo pregiudicando per sempre, ma rappresenta un asset fondamentale su cui costruire la rinascita dell’Italia».
Da dove occorre partire per incentivare l’agricoltura?
«È necessario un unico approccio sistemico a tutto ciò che è cibo, agricoltura, cura del territorio, sicurezza. Queste cose non sono slegate: bisogna iniziare a intervenire a tutti i livelli, avendo ben presente il quadro complessivo. Si va da una politica agricola comune europea più verde, che possa incentivare i giovani a tornare alla terra e le piccole aziende virtuose a non chiudere, si passa per politiche nazionali integrate e non troppo settoriali, fino a un piano nazionale serio che contempli tutte queste esigenze e faccia in modo che le nostre campagne si ripopolino. Serve una messa a sistema che potrebbe rendere tanto anche in termini economici, sia agli operatori sia alla comunità».
«Assolutamente sì. Occorre dargliene la possibilità, facendo capire l’appetibilità della scelta: semplificando la burocrazia, rendendo più facile l’accesso al credito e anche alla terra, creando centri formativi che si pongano un ritorno alla terra consapevole come obiettivo per la ««. I giovani sono fondamentali, bisogna aiutarli, fare in modo che possano confrontarsi con le vecchie generazioni e comprendere che in un momento di forte crisi l’agricoltura rappresenta una possibilità di costruire il proprio futuro, di lavorare in un progetto nobile e colto».
Da dove si può e si deve iniziare?
«È un processo lungo e lento, che implica una rieducazione al cibo, alle stagioni, alle economie locali. Il bandolo sono i nostri consumi: ridare più valore al cibo, diventando disponibili a pagarlo per le tante cose che veicola e rappresenta, e non soltanto per un prezzo più basso rispetto a un prodotto analogo. Prezzo e valore sono due cose diverse. Per troppo tempo siamo stati guidati solo dal prezzo. Pagare un po’ di più per un alimento realizzato con tecniche sostenibili, che ha viaggiato poco, che è in stagione, consentirà alla comunità di risparmiare in costi ambientali e di prevenire l’impoverimento della nostra cultura del cibo. Non significa svenarsi: significa rinunciare a qualcosa di superfluo, perché il cibo non è superfluo. Anzi, deve essere al centro delle nostre vite. Solo con un’alleanza consapevole tra chi produce e chi consuma possiamo ricostruire quel sistema agro-alimentare che ha reso il nostro Paese bellissimo. Vorrei che i consumatori diventassero sempre di più dei co-produttori: consapevoli di come si fa il cibo e da dove proviene».
«Il nostro progetto più importante è l’Arca del gusto. Concetto eloquente: l’arca è l’imbarcazione sulla quale Noè salvò le specie animali. Noi vogliamo fare la stessa cosa per i prodotti: proteggere l’agricoltura dall’estinzione. Puntiamo alla sensibilizzazione e alla diffusione di informazioni, affinché il consumatore possa avere facile accesso a cibi genuini e il contadino maggiore dignità. Oggi il biologico si è ridotto a una nicchia elitaria per ricchi. I concetti di naturalità e salubrità dovrebbero invece riguardare chiunque, da chi produce a chi consuma».