C’era una volta Carosello: l’amaro Dom Bairo e il fraticello pasticcione Cimabue

Ricordate Cimabue, il simpatico fraticello pasticcione del cCarosello degli Anni Settanta che una cosa faceva e due ne sbagliava? Chi ha già qualche capello grigio o come il sottoscritto di capelli non ne ha più affatto, non può averlo dimenticato, così come altri immortali protagonisti delle réclame dell’epoca, a partire da Carmencita, per proseguire con l’ippopotamo Pippo, l’Omino coi baffi, Caballero e tanti altri. Ebbene, ognuno di loro pubblicizzava un prodotto e molti di questi erano proprio figli del nostro Piemonte. A partire proprio dall’Amaro Dom (sigla per Deo Optimo Maximo) Bairo, imbottigliato nell’omonimo piccolo centro del Canavese, diventato famoso grazie al cartone “Le avventure di Cimabue”.

Lo spot, basato su una animazione realizzata graficamente da Paolo Piffarerio per la Gamma Film, andò in onda in bianco e nero a partire dal 1972, in concomitanza con la produzione industriale dell’amaro, dopo l’acquisizione della “Premiata Distilleria e fabbrica liquori d’Emarese in Bairo” da parte della Buton. In quegli anni si iniziò la commercializzazione del prodotto con il nome di “Elisir Amaro Dom Bairo, detto l’Uvamaro” lanciando la fortunata campagna pubblicitaria. Nella memoria collettiva rimane proprio la frase “Cimabue, Cimabue, fai una cosa e ne sbagli due” , mentre lo spot si concludeva con l’arrivo del priore che invitava a un brindisi pacificatore, con “un liquore al mondo raro, Dom Bairo l’Uvamaro, anno di grazia 1452”.

Il 1452 si riferiva alla all’anno di nascita della ricetta originaria dell’amaro, anche se, come suggerisce Ivo Chiolerio: “La tradizione ne attribuisce la paternità al celebre medico Pietro De Michaeli, meglio noto come Pietro Bairo, che nacque nel 1468 nel comune canavesano e morì a Torino, dove fu sepolto in cattedrale, nel 1558. Bairo, primo medico e archiatra alla corte del duca Carlo II di Savoia, mise a frutto la sua competenza erboristica creando un vino aromatizzato con una miscela di erbe e radici, tra cui risaltava la china, e ideando una ricetta che venne poi ripresa circa tre secoli più tardi dal barone Eugenio Vagina d’Emarese, fondatore in Bairo dell’omonima distilleria insediata in un’ala del palazzo d’Emarese, per la produzione dell’Amaro D.O.M. Bairo, ricavato da “uve silvane e erbe rare” e nominato per la prima volta nel catalogo della distilleria pubblicato nel 1898”.

L’amaro, che in seguito verrà anche pubblicizzato in seguito come Don Bairo, resterà in commercio sino intorno alla metà degli Anni Novanta. Si distingueva per un sapore simile a quello del vermouth, ma con una dotazione zuccherina inferiore, appartenendo di fatto alla categoria dei “vini amari”, che avevano cioè come base il vino, amaricato con miscele di erbe, spezie e radici. “Questa tipologia di prodotto – prosegue Chiolerio – si andò affermando tra gli anni Settanta e Ottanta per via delle accise ridotte, riscuotendo per un periodo il favore dei consumatori, per poi declinare dal principio degli anni Novanta. Apparteneva alla stessa categoria il celebre Diesus, amaro di gran moda negli anni Ottanta per l’originalità della bottiglia, modellata a forma di frate con tanto di saio e cordicella in vita. Prodotto dall’azienda Barbero, fondata nel 1891 a Canale d’Alba, derivava dal recupero della tradizione liquoristica dei conventi piemontesi, evocata dalla forma della bottiglia, e si basava sull’utilizzo del vino aromatizzato con 30 tipi diversi di erbe, tra cui spiccavano genziana, timo, maggiorana, china, sambuco”.

Piero Abrate

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