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Un itinerario nel Saluzzese tra castelli, antichi affreschi e ricchezza agricola

SALUZZO. Il territorio dell’antico marchesato di Saluzzo offre al visitatore una notevole varietà di paesaggi accanto a uno straordinario patrimonio artistico e un’ampia rosa di prodotti alimentari legati alla tradizione. Tra le più importanti testimonianze dei fasti marchionali, il castello di Manta, a poca distanza da Saluzzo, si erge sull’altura che domina il paese. La salita al castello evidenzia il valore strategico del sito, già fortificato nel XIII secolo e infeudato nel 1416 a Valerano, figlio illegittimo del marchese di Saluzzo Tommaso III e reggente del marchesato dal 1416 al 1424.

La fisionomia dell’edificio deriva da tre distinti interventi: la trasformazione da fortezza a residenza principesca, voluta da Valerano attorno al 1420, l’ampliamento promosso da Michele Antonio Saluzzo dopo metà Cinquecento e l’ala aggiunta a fine XVI secolo dal cugino Valerio Saluzzo, poi demolita. Nel periodo napoleonico il complesso venne adibito a ospedale per gli Austro-sabaudi, poi, ridotto a “pittoresca rovina”, fu acquisito dai conti Radicati di Marmorito, che ne ripristinarono l’integrità architettonica, e infine passò ai Provana del Sabbione che, con la contessa Elisabetta Provana, nel 1983 lo donarono al FAI (Fondo Ambiente Italiano).

La parte più antica ospita la Sala Baronale, ambiente di rappresentanza voluto da Valerano, con magnifici affreschi di soggetto profano attribuiti al Maestro della Manta, tra le massime espressioni della cultura figurativa del gotico internazionale, giunta nel marchesato di Saluzzo attraverso la raffinata corte francese. Il ciclo di affreschi celebra la figura di Valerano, le cui arme campeggiano sopra il grande camino, con i colori marchionali, bianco e blu, la V rovesciata in quanto figlio illegittimo e il motto dinastico Leit, dal verbo tedesco Leiten, guidare, e nel contempo documenta la passione dell’aristocrazia del tempo per i valori e i codici di comportamento della cultura cavalleresca.

Sulla parete interna della Sala si snoda la teoria dei nove Prodi e delle nove Eroine, ispirata al romanzo “Le chevalier errant” scritto dal padre di Valerano, Tommaso III, e incentrato sulla figura d’un cavaliere che, abbandonata la vita dissoluta, dopo peripezie giunge nel palazzo di Madame Fortuna, dove trova radunati grandi personaggi del passato, tra storia e mito. La serie dei nove Prodi è composta da tre eroi pagani, tra cui Ettore di Troia con il volto di Valerano, tre ebrei e tre cristiani, mentre il gruppo delle nove Eroine include figure storiche e mitiche, tra cui Pentesilea, regina delle Amazzoni, con il viso di Costanzia Provana, moglie di Valerano. Eccezionale è la resa di abbigliamento e acconciature, che ben documenta la moda parigina degli anni Venti del Quattrocento, mentre l’inclinazione realistica si evidenzia sia negli alberelli di specie diverse posti tra un personaggio e l’altro, sia nel tappeto erboso ai piedi delle figure, composto da un centinaio di essenze botaniche differenti, richiamo alla cultura figurativa fiamminga.

Sulla parete opposta compare invece il tema della Fontana della Giovinezza, che restituisce forza e virilità ai vecchi e bellezza e verginità alle donne, sviluppato in tre momenti: la corsa alla fonte, l’immersione nella fontana e la riscossa dei “ringiovaniti” che si danno a imprese amorose e venatorie. Nell’Appartamento di Michele Antonio risalta la Sala delle Grottesche, realizzata verso il 1560, in cui si esprime la passione della cultura manierista per il gioco intellettualistico di motti e vignette figurate, per i continui richiami alla classicità, al mondo mitologico e araldico. Tra ovali e riquadri la decorazione della volta è il trionfo della moda delle grottesche, giunta in Piemonte nel Cinquecento. L’attribuzione degli affreschi a Giovanni Angelo Dolce è il trait d’union che collega Manta al castello di Lagnasco, dove il pittore saviglianese lavorò con il padre Pietro. Il complesso di Lagnasco è meglio noto come  “i castelli di Lagnasco”, perché il nucleo fortificato centrale, originario della fine dell’XI secolo e appartenuto ai marchesi di Busca e poi a Manfredo IV di Saluzzo, venne ampliato nei secoli successivi con l’aggiunta di due maniche laterali, battezzate castello di ponente e castello di levante. Il feudo pervenne ai Tapparelli di Savigliano, marchesi d’Azeglio dal 1788, a seguito di complesse vicende, e ne divenne dimora ufficiale dalla seconda metà

Fu Benedetto I Taparelli, giudice nella Saluzzo occupata dai Francesi, a commissionare tra 1560 e 1570 lavori di rinnovamento con gli splendidi cicli di affreschi dovuti a importanti artisti: Cesare Arbasia, attivo in Piemonte, a Roma e in Spagna, Pietro Dolce da Savigliano, che lavorò con il figlio Giovanni Angelo, realizzando probabilmente anche gli illusionistici affreschi esterni, e Giacomo Rossignolo, pittore di corte sabauda dal 1563.

Nel castello di ponente si segnala il Salone di Giustizia, con soffitto a cassettoni dipinti, dove si alternano medaglioni in stucco con gli amori di Giove, riquadri con exempla ispirati al diritto romano, sovrapporte con paesaggi, e nel castello di levante il Salone degli Scudi, ornato da un fregio con 167 arme di famiglie subalpine, e la Loggetta delle Grottesche, significativo esempio di manierismo, influenzato dalla cultura fiamminga.

La decorazione a grottesche, di largo impiego in Piemonte, si affermò a partire dal 1480 con la scoperta a Roma sull’Esquilino di vani sotterranei affrescati, scambiati all’inizio per grotte (da cui “grottesche”), in realtà contenenti le vestigia della Domus Aurea neroniana. Da qui l’imporsi, specie nel Cinquecento, di un modo di decorare ispirato al Quarto Stile della pittura romana, con figure umane e animali, dai tratti fantastici, ibridi, chimerici, alternate a motivi vegetali, armi, maschere.

La visita ai castelli di Manta e Lagnasco, tra collina e pianura, consente anche di capire, osservando il paesaggio, le principali fonti della prosperità agricola del Saluzzese, che poggia sulla frutticoltura e sulla vite. La Doc Colline Saluzzesi offre rarità come il Pelaverga (in foto), da non confondere con l’omonimo vitigno di Verduno nell’Albese, e il Quagliano, vinificato dolce e come spumante. Nella diffusione del verga incisero sia la viticoltura monastica, con i monaci di Pagno in Valle Bronda che lo introdussero in zona, e la viticoltura aristocratica legata ai consumi della corte marchionale di Saluzzo, che usò il vino anche nella diplomazia. Margherita di Foix, moglie del marchese Ludovico II, riforniva infatti di botalli di Pelaverga la mensa di papa Giulio II che, entusiasta, si sarebbe convinto a concedere a Saluzzo la sede episcopale (1511).

La frutticoltura è praticata sia in fascia collinare che in pianura. Nella riparata Valle Bronda maturano i ramassin, da ramassé, perché raccolti a terra, o dalmassin, damaschine, perché originari di Damasco in Siria, varietà autoctona di Susina siriaca un tempo destinata ai barattoli e all’essiccazione. In collina tra Busca e Costigliole prosperano le albicocche, specialmente la varietà autoctona Tonda di Costigliole, molto aromatica, mentre nella fascia di pianura, attorno a Lagnasco, è voce importante la peschicoltura. Risale infatti al 1927 l’impianto del primo pescheto piemontese di Hale, varietà originaria della California, che segnò l’inizio di una produzione specializzata oggi estesa all’intero Saluzzese.

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