Personaggi

Maurizio Cheli

«Sono pronto per questa nuova, grande avventura: la vetta dell’Everest. Che guardavo dallo spazio, sullo Shuttle, con grande ammirazione e speravo, un giorno, di arrivare in cima…»

Maurizio Cheli, classe 1959, modenese di Zocca, ha già superato molte sfide e rischi.  Già pilota dell’Aeronautica Militare e poi pilota collaudatore per l’Alenia, ha volato su un centinaio di velivoli, quasi tutti caccia militari. E poi, la missione Shuttle del febbraio-marzo 1996, a bordo del “Columbia”: quasi 17 giorni in una lunga e complessa missione, dove divenne il primo italiano ad andare in orbita con il ruolo di “Specialista di missione”. E ora, si appresta alla nuova grande avventura: l’Everest.

Maurizio, quindi andrai sull’Everest.  Sei pronto?  Quando parti?                                                            

«La partenza è per metà aprile, ma la scalata vera e propria avverrà tra il 19 e 30 maggio E per farlo c’è voluta una preparazione davvero meticolosa, dove nulla va lasciato al caso. In dicembre ho scalato l’Aconcagua, sulle Ande, fino a 7.000 metri di quota. Ancora prima, il Kilimangiaro.  Anche durante le vacanze di Pasqua, ho continuato a prepararmi, a Cervinia».

Andrai in compagnia?  

«Si, con me avrò due guide molto esperte, Marco Camandona  Francois Cazzanelli, e inoltre prenderà parte alla spedizione Sergio Cirio. Faremo tappe intermedie , a partire dal campo base a 5.300 metri. Sono importanti per ambientarci, e per poter poi affrontare bene il seguito della scalata».

Quando hai pensato di realizzare l’impresa?                         

«Ho iniziato a pensarci tre anni fa. Poi ho conosciuto Camandona, con il quale poi in seguito mi sarei allenato. Lui è stato protagonista di tante scalate di vette a 7 o 8.000 metri…  E’ un viaggio davvero straordinario, e ormai non vedo l’ora di partire.  Vivendo in Piemonte ho le montagne vicine: è una fortuna stare a poca distanza dalle montagne, e di quelle importanti, in Piemonte e  Valle d’Aosta. Nel 2015 mi sono detto: ora o mai più».

Passiamo invece alla tua principale passione, la tua professione che ti ha reso anche famoso. Il volo. Quando è nata?            

«Proprio da Zocca, nel modenese,  dove sono nato e cresciuto. Ed è da ragazzino, come per molti piloti e astronauti, che nacque la mia passione per il volo. Vedevo sfrecciare nel cielo i caccia, con quel rombo impressionante. Mi piaceva molto la velocità, e non puoi realizzarla a terra. Su un aeroplano invece puoi andare veloce e l’emozione e l’ebbrezza del volo sono meravigliosi. Volevo fare o il camionista, o il pompiere o il pilota di aerei. Ho scelto quest’ultima soluzione, e ne sono felice».                                                                                                                                               Hai scritto un libro sulla tua storia, ma incentrato su come avvengono determinate scelte nella vita. Le tue decisioni sono sempre state giuste, in particolare nella vita professionale?        

«Quasi sempre giuste. Ho sempre avuto le idee chiare su quello che volevo fare, e ho sempre cullato dei sogni, che poi si sono avverati. Eppure a Zocca tutto pareva così lontano dal volo. I miei genitori, ai quali devo moltissimo, hanno preso l’aereo solo a 80 anni compiuti, e per loro, come per tanti genitori di quella generazione fare il pilota, per non parlare dell’astronauta che era fantascienza, era accettato bene solo se si era ben pagati, altrimenti preferivano altro».

E poi gli anni nell’Aeronautica. Importanti, vero?                  

«Molto.  Grande esperienza, grande formazione. E’ li che ho realizzato il mio primo, grande sogno. Ed è quello il risultato della prima, grande decisione della mia vita. Oltretutto con il curriculum di  pilota dell’Aeronautica Militare presentai la mia richiesta per diventare astronauta nel 1991. Per la selezione europea, eravamo in 6.000. Siamo poi rimasti in sei. Un grande sogno che si avverava: astronauta ESA, e poi alla NASA. Non stavo nella pelle».

La notte del 22 febbraio 1996. Alle 2 ti svegli. E poi?          

«Era la notte del lancio. Eccitato come un bambino nella notte di Natale. Iniziava la grande avventura  della missione nello spazio. Uno dei voli più lunghi del Programma Shuttle. Ricordo che quando vidi la prima volta lo shuttle sulla rampa di lancio rimasi impressionato, non lo immaginavo così imponente…»

Un po’ di paura?  C’era già stato l’incidente del Challenger…            

«Direi di no. Adrenalina a discreto livello, quello sì. Hai paura solo di ciò che non conosci. Noi conoscevamo ogni dettaglio del Columbia e del suo complesso di lancio. Poi hai troppe cose a cui pensare, non hai tempo per avere paura. Io poi, arrivando da un esperienza di pilota collaudatore, a maggior ragione non sarei stato capace di affrontare una simile impresa con timore. Certo, quando quella spia si accese a meno 50 secondi di lancio con scritto “abort”, un po’ l’adrenalina è salita…Ma anche lì è stata presa una decisione “tutto in un istante”.  Abbiamo ignorato quell’allarme. E abbiamo fatto bene».

La solita domanda, forse un po’ banale. Cosa ti ha colpito da lassù?                 

«Che sei in orbita a 400 chilometri dalla Terra.  Tre ore d’auto, che noi abbiamo percorso in otto minuti. E da lassù si sparisce. Vedi tutto il pianeta, senza confini e osservando il dettaglio dei continenti e nazioni, ma non vedi l’uomo. Eppure laggiù eravate in quasi 7 miliardi».

Se ne vedono gli effetti però…    

«Sì, molto spesso, e li abbiamo fotografati. Laghi che una volta erano grandi dieci volte di più, e ora sono delle chiazze. E poi le regioni della deforestazione… e l’inquinamento, compreso quello luminoso».

Torneresti in orbita per le missioni di oggi?  Cioè sei mesi, minimo…    

«Sì, anche domani, se potessi. Noi all’epoca non disponevamo ancora dei social di oggi per raccontare, condividere e commentare. Mi piacerebbe farlo sia come astronauta, sia per far rivivere a chi sta a terra le emozioni che, vi garantiscono, sono incredibili e continue».

E oggi. Di cosa ti occupi?       

«Una nuova avventura. Imprenditoriale. Già da tempo mi occupo di progettare nuovi velivoli innovativi, con la società DigiSky, assieme all’ingegner Paolo Pari. Abbiamo realizzato un velivolo con propulsione elettrico-termica di nuova concezione. Abbiamo realizzato il Dardo, altro velivolo innovativo. E poi mi occupo di realizzazioni tecnologiche per il settore aeronautico. Un esempio? Una nuova mascherina per i piloti, in grado di farli volare in modo sempre più comodo e, possibilmente, sicuro. E poi, abbiamo realizzato apparati fotografici e video per raccogliere dati sull’inquinamento atmosferico. E di recente abbiamo firmato un accordo con il centro spaziale ALTEC di Torino, per nuovi progetti. Ma ora, sono concentrato sulla grande scalata, quella vetta più alta del mondo che immortalai dallo Shuttle.  Vi racconterò un’altra grande avventura».

 

Antonio Lo Campo

Antonio Lo Campo, nato a Torino, è giornalista scientifico specializzato per il settore aerospaziale. E' Space Editor per il quotidiano "La Stampa". Collabora anche con "Avvenire" e con le riviste di astronomia "Nuovo Orione" e "Le Stelle". Ha scritto due libri sulla storia dell'astronautica e come co-autore ha collaborato a diverse opere editoriali su temi di scienza e spazio. E' socio consulente di vari gruppi di astrofili in Italia, e ha ricevuto alcuni premi per la sua opera di divulgazione scientifica.

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