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Itinerario dolce a Carignano: cariton con uva fragola e zest della duchessa Bianca

CARIGNANO. Immersa nella pianura agricola a sud di Torino e lambita dai meandri del fiume Po, la città di Carignano vanta una solida tradizione dolciaria, che vede le sue specialità più rappresentative nel cariton, rivisitazione in chiave moderna dell’antica consuetudine dei “pani della carità”, e negli zest, le scorze d’arancia (o di limone) candite che già Bianca di Monferrato, sposa nel 1485 del duca di Savoia Carlo I, preparava con gli agrumi raccolti nelle serre del castello. 

Il cariton, nella versione oggi più diffusa, si presenta come una focaccia piatta e dolce che racchiude una farcitura a base di uva fragola o, secondo una variante, di mele cotogne. Da una ricerca degli studiosi Paolo Castagno e Fabrizio Chicco, condotta per conto dell’Associazione Progetto e Cultura Turismo Onlus, emergono informazioni interessanti in merito all’origine di questo prodotto che fa parte integrante della tradizione dolciaria carignanese, ma che appare presente, nella tipologia descritta, anche in diversi comuni del territorio a vocazione agricola che si protende dalle propaggini meridionali della conurbazione torinese verso il Pinerolese. Oltre a Carignano, l’area di produzione del cariton annovera i comuni di Piobesi Torinese, Osasio, Pancalieri, Castagnole Piemonte, Lombriasco e Virle.  

Il Duomo dei Santi Giovanni Battista e Remigio a Carignano

Va annotato che prodotti alimentari designati con questo nome, ma aventi caratteristiche diverse come sapore e ingredienti, sono presenti anche in altre zone del Piemonte, dalle Langhe al Roero, dalla valle Po all’Astigiano. A Portacomaro, borgo collinare a nord-est di Asti, si festeggia dal 1969 la “Sagra del Caritin” (letteralmente “piccola carità”, pagnotta dolce aromatizzata con scorza di limone grattugiata), che si allaccia all’antica consuetudine di vendere all’incanto, la domenica dopo Pasqua, i “pani della carità”, preparati dalle famiglie del paese e benedetti durante la funzione religiosa: il ricavato veniva destinato, tramite la locale Confraternita dell’Annunziata o dei Battuti (Batù), al sostegno dei poveri. L’usanza è attestata anche nei paesi del Monferrato Casalese, dove queste ricorrenze vengono denominate “Feste della Carità” o “Incanto della Carità” e i pani venduti sono definiti cariton (letteralmente grande carità).

Il cariton viene farcito con uva fragola, ma esiste anche una variante alla mela cotogna
(foto Associazione Produttori Cariton di Piobesi Torinese)

Il nome del prodotto, che sia cariton o caritin, richiama alla memoria la consuetudine di distribuire ai meno abbienti i “pani della carità”, evocando i rituali che venivano celebrati per finalità benefiche, in occasione delle festività cristiane maggiori (Pasqua, Avvento) o delle ricorrenze patronali, per iniziativa di enti religiosi, parrocchie o confraternite, allo scopo di assicurare un aiuto concreto ai poveri. Nel “Gran Dizionario piemontese-italiano” di Vittorio Sant’Albino (Torino, 1859), alla voce “carità o pan santo o benedetto”, si legge: “così chiamasi una certa focaccia condita con pepe e zafferano e cotta nel forno”, preparata e distribuita ai poveri durante le feste patronali. Il termine caritin, sempre secondo il prestigioso Dizionario, identifica invece “piccoli pani mandati a case particolari in regalo”. Le radici degli odierni cariton, così chiamati per differenziarli dai caritin, più piccoli e con minor apporto nutrizionale, vanno quindi ricercate in queste pratiche di carità, ispirate dalla fede cristiana, che traevano in parte origine dall’usanza medievale delle cosiddette datiche o daje, elargizioni periodiche di beni alimentari, vino e frutta in particolare, ma anche pane, promosse dalla Chiesa in favore degli indigenti.

A Torino, seconda la già citata ricerca, vi era la consuetudine, rispettata sino al primo Novecento, di distribuire il pane benedetto nel giorno di San Giovanni Battista, come anche l’uso di elargire ai poveri, in occasione della festa di San Remigio (da cui il termine di dàtica o daja di San Remigio), una parte del raccolto di grano, insieme con vino e pane della carità. Stessa pratica, celebrata nel giorno di San Giovanni Battista, è testimoniata a Piobesi Torinese, dove la consegna del pane benedetto, chiamato nei documenti “cariton”, avveniva nei pressi della pieve di San Giovanni ai Campi, oggi chiesa cimiteriale.

La chiesa della Misericordia e il monumento ai caduti a Carignano

La ricetta del cariton, derivato dai “pani della carità” ma trasformatosi nel tempo in un dolce vero e proprio tipico dell’autunno e della prima parte dell’inverno, è mutata nel corso dei secoli, adeguandosi ai gusti. Un tempo il prodotto veniva ricavato dalla pasta di pane lievitata, senza aggiunta di burro e zucchero, e farcita con uve locali che, dopo la raccolta, venivano lasciate appassire in luoghi asciutti dell’abitazione, su apposite rastrelliere, per consumarle durante l’inverno. Le versioni odierne, aldilà di varianti rimaste più fedeli alla tradizione antica, prevedono invece l’impiego di burro e zucchero e utilizzano per la farcitura l’uva fragola, in certi casi sostituita dalle mele cotogne. Il cariton, perdute le caratteristiche originarie, si presenta quindi come una focaccia dolce, riempita con acini di uva fragola che, durante la cottura, rilasciano parte del succo, assorbito dall’impasto. Il “coperchio” invece è arricchito di una “glassatura o spolveratura esterna di zucchero in granelli”. L’uva fragola, chiamata anche uva americana, è la più antica tra le viti americane introdotte in Europa (attorno al 1820) e un tempo, prima dell’entrata in vigore dei divieti legislativi nei primi anni Trenta, veniva anche impiegata per la produzione del vino “fragolino”, noto in Francia come “framboisier” per il profumo di lampone.

Gli zest, scorze d’arancia candita tipiche di Carignano

L’altra specialità dolce di cui mena vanto Carignano è lo zest, nome che designa la scorza d’arancia candita. Il vocabolo “zest”, secondo alcuni mutuato dal tedesco, secondo altri dal greco antico “schistòs” nel significato di parte separata, tagliata via (in riferimento alle listarelle colorate staccate dalla buccia), si trova menzionato nel “Dissionari piemontèis, italian, latin e fransèis” compilato dal sacerdote Casimiro Zalli (Carmagnola, 1815) che alla voce “zest” riporta “pezzetto di melarancio confetta, mali aurantii corticula, petit morceau d’écorce d’orange”. Mario Marsero in “Dolci delizie subalpine” (Torino, 2004) ci informa che in francese con il termine “zeste” si indica la buccia degli agrumi, che è la parte meno pregiata del frutto: da qui deriva il modo di dire “ne pas valoir un zeste” riferito a cosa di poco valore.

L’arte della canditura, come ramo della pasticceria, si sviluppò nel Medioevo nelle città portuali, in particolare Genova, che intrattenevano commerci con l’Oriente e che, durante le Crociate, appresero in terra di Siria sia l’uso dello zucchero ricavato dalla canna da zucchero (al tempo chiamato “sale indiano” per la provenienza della pianta dall’India) e destinato a sostituire il miele come principale dolcificante, sia la tecnica di conservazione basata sull’immersione delle scorze di agrumi nella melassa, pratica abituale per i marinai che, in questo modo, si garantivano scorte di cibo preservandosi dallo scorbuto con l’assunzione di vitamina C.

Fu così che gli speciarii, in seguito chiamati “confettieri”, si specializzarono nella fabbricazione di una vasta gamma di prodotti dolciari in cui lo zucchero, con le sue proprietà antisettiche e la sua capacità di prolungare la conservazione, è componente essenziale, come confetti, gelatine, confetture, frutta candita, mostarda di frutta. Le tecniche di canditura di frutta, fiori e scorze d’agrumi, al tempo considerati alla stregua di spezie e coltivati nelle serre dei castelli dette “orangerie” o “citronerie”, si diffusero poi in Francia e anche in Piemonte, dove in diverse località nacquero botteghe artigiane specializzate. Tra queste vi era Carignano, dove la produzione degli “zesti”, scorze di agrumi candite, iniziò già prima del Trecento, mentre risale al 1516 l’attestazione scritta che documenta il radicamento di questa pratica in città. Infatti è datata 9 ottobre 1516 la lettera che la duchessa Bianca di Monferrato, vedova del duca di Savoia Carlo I, morto nel 1490, inviò a Carlo II di Savoia, annunciandogli la spedizione di un “peu de coudognat” (cotognata) e di alcuni zest, menzionati però alla francese come “gestes”, preparati dalla nobildonna utilizzando gli agrumi raccolti nelle serre del castello sabaudo di Carignano, oggi non più esistente, dove si era ritirata a seguito della morte del marito.

La duchessa Bianca di Monferrato

La produzione degli zest a Carignano proseguì nei secoli successivi, ma la notorietà del prodotto venne consacrata dalle “Gianduiedi”, cinque manifestazioni incentrate sulla figura di Gianduja che andarono in scena a Torino lungo via Po, nel periodo del Carnevale, tra il 1868 e il 1893. Nei giorni delle rappresentazioni, con trama elaborata da Giuseppe Giacosa a metà tra rievocazione storica e episodi immaginari, si allestirono padiglioni in cui i produttori di zest, accanto ad altri, ebbero modo di promuovere le loro specialità, commissionando all’avvocato torinese Andrea Bolla (1833-1905 o 9), noto bohémien e arguto poeta in piemontese, un componimento in rima per esaltare le qualità dei “bon zest d’Carignan”. 

Gianduja e Giandujotto in un quadro di Walther Jervolino

Ricordiamo infine che dal connubio tra l’arte della canditura e la cioccolateria torinese prese forma la consuetudine, ancor oggi praticata nelle pasticcerie sabaude, di ricoprire gli zest d’uno strato di cioccolato fondente: sulla questione si dividono le “scuole di pensiero” perché alcuni maître chocolatier limitano il rivestimento di cioccolato a tre quarti della superficie, lasciando scoperto un pezzetto di scorza d’arancia candita, mentre altri, più innovativi, avvolgono lo zest nella sua interezza.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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