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Espressioni piemontesi: lo svogliato e frettoloso “travaj dël pento” (lavoro del pettine)

Questo modo di dire piemontese ancora molto diffuso è nato dal gergo di fabbrica dei produttori di cappelli; ma non tutti, oggi, ne conoscono il vero significato

In piemontese dire che una cosa è “dël pento”, cioè “del pettine”, equivale a definirla di poco valore, di poco pregio. Ad esempio, può essere definito un travaj dël pento un lavoretto fatto in fretta e in modo svogliato. Così come può essere considerata “dël pento” una domanda inopportuna, fuori luogo o senza senso. O ancora: una figura meschina può essere definita “una figura del pettine” quando abbia i connotati della gaffe più barbina.

Ma come nasce questa espressione popolare? Fino alla metà del Novecento, nei borghi rurali, non era infrequente sentir risuonare di tanto in tanto una possente voce maschile proveniente dalla strada maestra del paese, oppure echeggiante nelle stradine sterrate di campagna che conducevano ai cascinali più emarginati, che di primo mattino, ripeteva a cadenza serrata: “Ij cavèj dël pento! Ij cavèj dël pento!”. Ciò accadeva in genere in un giorno preciso della settimana, per cui le contadine del luogo, già pronte e in attesa, facevano la posta a quell’uomo, e aspettavano di sentire l’eco di quella voce, per presentarsi sull’uscio di casa o della cascina con un piccolo fascio di capelli legati tra loro, che avevano raccolto in una scatolina davanti allo specchio, prima della toilette serale: erano i capelli che ogni volta restavano attaccati ai denti del pettine, dopo averlo ripetutamente passato sulla chioma o sulle trecce sciolte.

I capelli femminili, a quei tempi in genere molto lunghi (spesso fino alle ginocchia), venivano recuperati uno ad uno, arrotolati, e conservati come una reliquia, fino a comporre dei piccoli fasci opportunamente legati. Coloro che passavano al grido di “Ij cavèj dël pento” erano degli ambulanti incaricati di acquistare, appunto, i “capelli rimasti tra i dentelli del pettine”: venivano pesati con un bilancino da farmacista, e a seconda della quantità, venivano compensati con fazzoletti di cotone, asciugamani, tovaglioli, piccole confezioni di talco o di belletto. I capelli così acquistati, dopo essere stati smistati per lunghezza, calibro e colore, venivano in genere rivenduti ai produttori di parrucche.

Ma i capelli femminili erano pure molto ricercati dai produttori di cappelli, come la Borsalino di Alessandria, fondata nel 1857 dai fratelli Giuseppe e Lazzaro Borsalino. Altre prestigiose e dinamiche fabbriche piemontesi di cappelli in feltro erano disseminate sulle rive del Lago Maggiore, come il Cappellificio Panizza di Griffa (aperto nel 1881). Un’altra area piemontese famosa per i suoi cappellifici è stata certamente il Biellese, dove nel 1862 venne fondata la ditta Barbisio, Milanaccio & C., una delle griffes di cappelli in feltro più prestigiose e note al mondo. I capelli venivano mescolati con il pelo di coniglio, per creare un feltro particolarmente elastico e resistente. I capelli femminili, dosati nella giusta proporzione, davano infatti al feltro una lucentezza particolare, e lo rendevano assai più indeformabile.

Molto ambite, ovviamente, erano anche le trecce intere. Alcune ragazze da marito decidevano di rinunciare all’ornamento del loro capo in cambio di un compenso più corposo, come lenzuola, coperte, o qualche altro elemento importante da corredo. Non mancava chi si faceva radere a zero dai compratori, i quali, armati di macchinette e di forbici, sforbiciavo le teste delle donne, che poi, per molti giorni, erano costrette ad indossare un foulard, o un fazzoletto legato sul capo, in attesa di potersi di nuovo mostrare con una chioma convenevole. La rasatura veniva fatta direttamente dal compratore, dopo aver negoziato il compenso: nessun compratore itinerante avrebbe acquistato mai capelli già tagliati, che avrebbero potuto essere infestati dai pidocchi.

Forse in questi gesti antichi o in certi vecchi, reiterati, metodi di lavorazione artigianale, possiamo trarre significativi indizi per scoprire l’etimologia dei modi di dire d’antan. La genesi delle espressioni popolari è però sempre molto difficile da ripercorrere, e le tesi interpretative sono spesso differenziate e contrastanti. Se è verosimile che il significato della locuzione “un travaj dël pento” non debba essere solo inteso come lavoro che in qualche modo ha a che fare con i pettini, gli spilloni, le spazzole, i capelli e i cappelli, è pur vero che certe considerazioni sulle abitudini dei nostri nonni ci aiutano a riflettere sul loro forte senso del risparmio, sul rispetto del valore che avevano anche delle piccole cose, recuperando e riciclando tutto ciò che poteva essere utile.  A ben pensarci, infatti, in quest’espressione, oggi usata in senso negativo, c’è in realtà tutta la sintesi dei buoni valori dell’antica civiltà contadina, dove nulla era mai sprecato, e che non trova più nessuna corrispondenza in questa nostra irresponsabile civiltà (civiltà?) contemporanea dei consumi.

E allora? Forse conviene rifletterci su un attimo, prima di definire “del pettine” qualche cosa.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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