Quattro passi nel Medioevo: Levone e le streghe processate e condannate dall’Inquisizione
Che a Levone e nei suoi dintorni ci siano stati diversi processi per stregoneria non stupisce, il Basso Canavese era infatti ricettacolo di movimenti ereticali di diverso genere, non ultimo il tuchinaggio, la rivolta contadina che aveva funestato le campagne nel Trecento e poi ancora in seguito. I canavesani erano conosciuti per essere “teste calde”, anche se questa credenza era abbastanza usuale per tutti i popoli che avevano mantenuto una loro autonomia, anche a causa del maggiore isolamento e del carattere rurale di queste zone, caratteristica che contribuiva al mantenimento delle credenze che arrivavano dal passato.
Gli studiosi sono oggi concordi nell’affermare che la persecuzione nei confronti della magia e di chi praticava la stregoneria è stata una conseguenza di innumerevoli fattori, come le continue guerre, le carestie, il tempo inclemente che rovinava i raccolti, le epidemie e la richiesta continua di tasse da parte dei governanti.
Il popolo era vessato da ogni direzione, la mortalità infantile particolarmente elevata e le donne che fino ad allora erano state tollerate: le levatrici, le curatrici, spesso incarnate nella stessa persona, vennero prese di mira e divennero presto un capro espiatorio.
Si trattava di figure esistite da sempre, soprattutto in una società arcaica dove i medici erano scarsi e non ancora organizzati e dove le herbarie, le donne che sapevano usare le erbe a fini medici e alcune volte magici; anche perché non esisteva una divisione sistematica come oggi tra l’uso delle piante come cura e l’uso delle stesse per incantesimi mortali o quanto meno negativi.
A Levone successe quanto già accaduto in molti altri luoghi in tutta Europa, quando la pressione sociale divenne troppo forte per essere sopportata, iniziarono a piovere le prime denunce: nell’agosto 1474 nel castello di Rivara, il Tribunale dell’Inquisizione istruì il processo a carico di “Antonia, moglie di Antonio De Alberto; Francesca, moglie di Giacomo Viglone; Bonaveria, moglie di Antonio Viglone; Margarota, moglie del fu Antonio Braya”. Le imputate furono accusate di “malefizi, incantesimi, stregherie, eresie, venefizi, omicidio e preva ricazioni della fede”.
Una particolarità che ha consentito di studiare approfonditamente i documenti, giunti fino a oggi, è quella di essersi fortunatamente conservati, a differenza di altri processi che sono andati perduti a causa dei traslochi, incendi, pulizie degli archivi. Nel processo di Levone ci sono cinquantacinque capi d’accusa, basati sulle testimonianze giunte dalla popolazione locale e tutte suffragate dalla formula ricorrente: “e ciò essere vero, notorio e manifesto, come dimostrano la fama e la voce pubblica”.
Erano davvero colpevoli le quattro donne, protagoniste del processo più conosciuto tra le località limitrofe? Secondo l’inquisitore torinese Francesco Chiabaudi, che presumibilmente si era recato con poca voglia nei luoghi così rinomati per ospitare facinorosi eretici, due delle donne avevano fatto un patto con il diavolo ed erano colpevoli di malefici di vario genere.
Ecco quindi spiegate le morti improvvise di neonati, le epidemie che continuavano a flagellare un territorio povero e con poche risorse, la morte di animali. Le testimonianze si moltiplicarono a dismisura, come sempre vi era chi aveva visto volare le streghe, trasformate in gatti neri, stagliate sulla luna piena notturna, mentre stridevano con un suono da civetta.
Il folklore popolare era venuto a galla, le pratiche pagane, ancora vive in alcune feste e cerimonie moderne, che il cristianesimo aveva cercato di soffocare, si assommarono alla grande paura della morte e all’effetto dell’Inquisizione, che tramite la Chiesa era riuscita a far diventare il diavolo estremamente reale e quotidiano.
Forse è inutile dire che le donne vennero torturate e finirono per confermare le accuse dei loro concittadini (tra i quali c’era il podestà del paese, le cui figlie erano state vittime delle streghe): avevano fatto un patto con i loro diavoli personali, Giovanni, Pietro e Gabriele, con loro praticavano atti infami durante gli incontri alla luce della luna.
Con la diversa sensibilità di oggi ci pare chiaro che non avrebbero potuto, sotto la tortura, affermare altro se non quello che veniva loro messo in bocca, e a dire il vero anche all’epoca c’erano dei giuristi che andavano contro l’opinione comune e ritenevano che la tortura fosse inutile, ma tant’è, le quattro donne, così come migliaia di altre, furono sottoposte a questa barbara usanza.
Infine, Antonia e Francesca furono bruciate sul rogo allestito a prato Quazoglio, nei pressi del torrente Malone: era il mese di novembre 1474. Non sappiamo cosa accadde alle altre due: alcuni documenti attestano che Bonveria, nel 1475, era ancora in carcere e sistematicamente interrogata per i suoi crimini diabolici, non conosciamo però l’evoluzione degli eventi; per quanto riguarda Margarota vi sono indicazioni relative alla sua fuga, che le concesse così di sottrarsi a ulteriori sofferenze, ci conferma Massimo Centini nel libro da lui scritto e dedicato alle vicende di Levone (Le assassine di Levone, edizioni Yume).
Attualmente la giunta comunale ha voluto ricordate i processi di Levone con l’istituzione di un festival che si tiene ogni anno tra le vie del paese, dove si possono ammirare alcune particolarità, come le case medievali con i fienili chiusi da tronchi di legno separati, la cappella romanica di san Pietro Apostolo, il rudere della cappella di santa Margherita con la bella finestrella a cuore, la Torre della porta dell’antico ricetto. È inoltre suggestivo, con l’aiuto del libro di Centini, seguire la strada che le streghe di Levone hanno percorso per il loro ultimo viaggio, fino al prato di Quazoglio, dove è avvenuto il rogo, nei pressi del torrente Malone.
testo di Katia Bernacci
immagini di Marino Olivieri
Per approfondire:
Massimo Centini, Le assassine di Levone, Yume edizioni