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La riscoperta del Picotener, il “Nebbiolo dimenticato”

Il “principe dei vitigni” piemontesi, il Nebbiolo, è una varietà difficile da coltivare, sensibile alla composizione del terreno e alle caratteristiche del microclima: richiede pazienza, cure attente e l’applicazione delle migliori tecniche di potatura e allevamento della vite. Menzionato per la prima volta come “Nibiol” in un documento del 1266 riferito al territorio di Rivoli, all’imbocco della valle di Susa, il prestigioso vitigno presenta una lunga tradizione colturale, ma sempre praticata “in un territorio circoscritto”, non avendo mai abbandonato, come annota la studiosa Anna Schneider dell’Università di Torino, i “sistemi collinari raccordati alle Alpi”, data la predilezione della cultivar per i climi montani e continentali.

Il Nebbiolo sembra corrispondere all’”uva nera detta nubiola” descritta nel primo Trecento dall’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi, che la celebrava come “uva meravigliosamente vinosa” e “molto lodata nella città di Asti e da quelle parti”, testimoniando così un’estensione delle terre coltivate a Nebbiolo notevolmente più ampia rispetto a quella attuale. Il vitigno ha poi conosciuto in tempi moderni una significativa regressione, in particolare a seguito della triplice ondata di malattie “americane”, oidio, peronospera, fillossera, che, tra metà Ottocento e primo Novecento, investirono la viticoltura europea, minacciandone la sopravvivenza. Nella fase di ricostruzione del vigneto piemontese, i contadini scelsero le varietà considerate più produttive e resistenti, come il Barbera, che guadagnò terreno a discapito del Nebbiolo, confinato nelle sole aree più vocate per la sua coltivazione, le Langhe del Barolo e del Barbaresco, il Roero e la fascia pedemontana del Piemonte settentrionale, dall’alto Canavese alle colline della Sesia e del Novarese, fino ai versanti solatii della conca ossolana.  

L’origine del nome, Nebbiolo, è contesa: c’è chi lo fa derivare dalla maturazione tardiva dell’uva, tra il principio e la metà di ottobre, quando le nebbie (da cui Nebbiolo) s’insinuano tra le colline, e chi lo mette in relazione con la sostanza cerosa, chiamata pruina, dal colore grigiastro-biancastro simile a nebbia, che ne avvolge gli acini, proteggendoli da attacchi batterici e disidratazione.

La plurisecolare coltivazione della varietà e la sua “spiccata variabilità fenotipica” è all’origine non soltanto delle differenti denominazioni con cui il Nebbiolo è conosciuto a seconda dei luoghi di coltura, come Picotendro in valle d’Aosta, Spanna nel Novarese, Prunent nell’Ossola e Chiavennasca (Ciuvinasca) nella lombarda Valtellina, ma anche delle diverse sottovarietà (o biotipi) a cui si riconoscono caratteri tanto specifici da giustificare, nei disciplinari di produzione dei vini più importanti, l’esclusione di alcune e l’obbligatorio utilizzo di altre. Le prestigiose DOCG Barolo e Barbaresco si devono ricavare soltanto da Nebbiolo delle sottovarietà Michet (così chiamata per la forma a “pagnotta” del grappolo), Lampia e Rosé, mentre ne rimangono escluse altre, ritenute non adeguate, come il Nebbiolo Bolla. Tutte queste sono state oggetto di studi accurati, che ne hanno indagato il profilo genetico e gli aspetti ampelografici, risalendo ai legami di parentela con altre cultivar e stabilendo ad esempio che il Nebbiolo Rosé, da sempre ritenuto una “sottovarietà”, è in realtà classificabile come varietà a sé, sebbene strettamente imparentata con il Nebbiolo.

In tempi recenti uno dei produttori storici del Piemonte, l’azienda Enrico Serafino, con cantine a Canale d’Alba, nel cuore di quell’area collinare alla sinistra del Tanaro che nel corso del Novecento, per farle acquisire una fisionomia propria, distinta dalle Langhe, venne battezzata “Roero”, dal nome dell’omonima famiglia d’origine astigiana proprietaria in zona di numerosi castelli e feudi, ha riportato in auge una delle antiche sottovarietà del Nebbiolo, il Picotener, ritenuto originario del Canavese, dove ancora oggi è utilizzato per la produzione del Carema Doc. Proprio dal Canavese proveniva il fondatore dell’azienda, Enrico Serafino, che nel 1878, appena ventiquattrenne, si trasferì dal paese di Romano, dove la famiglia era impegnata nel settore della pasta, a Canale d’Alba, per concretizzare il sogno a lungo coltivato di produrre “Vini di lusso: bianchi, rossi e spumanti dei migliori vigneti del Piemonte”.

Avvantaggiato dall’apertura nel 1882 del collegamento ferroviario Asti-Canale, strategico per il trasporto dei vini, Serafino in breve tempo acquisì fama e prestigio tanto da guadagnarsi nel 1884 il titolo di “Provveditore del Duca di Genova”, potendo esibire così sulle etichette e nelle insegne gli emblemi reali sabaudi. Nel 1970 la ditta Enrico Serafino si vide riconosciuto un privilegio importante con l’assegnazione del “diritto storico acquisito” a condurre l’intero processo di vinificazione e affinamento delle DOC Barolo e Barbaresco, istituite proprio in quell’anno, all’interno delle cantine di famiglia a Canale, in deroga alle disposizioni dei rispettivi disciplinari, che l’avrebbero impedito, trovandosi l’azienda all’esterno delle zone di produzione.

Gli attuali proprietari della cantina, i Krause Gentile, continuano a gestire l’azienda nel rispetto dei principi e della filosofia di vita del fondatore, Enrico Serafino, incarnando quella “Attitudine Piemontese”, cioè il modo tipico dei piemontesi di fare le cose, che si rispecchia nei vini prodotti in azienda, conformi ai caratteri di eleganza, complessità e artigianalità. Gli ultimi nati nell’ampia rosa di vini proposti da Enrico Serafino sono la Docg Alta Langa, spumante brut ricavato da uve Pinot Nero, in purezza o con percentuali variabili di Chardonnay, che si produce rispettando regole molto severe, tra cui l’altitudine dei vigneti (non inferiore ai 250 metri s.l.m.), il millesimo obbligatorio su ogni bottiglia e un periodo minimo di affinamento sui lieviti di 30 mesi (l’Alta Langa “Zero 140” prevede addirittura 140 mesi), e il Picotener Langhe Nebbiolo Doc, familiarmente chiamato il “Nebbiolo dimenticato” perché basato sull’utilizzo esclusivo d’una sottovarietà, il Picotener, che nell’Albese non trovava spazio, essendo l’attenzione di coltivatori e autorità rivolta ai biotipi più “blasonati”, impiegati per Barolo e Barbaresco, cioè Michet, Lampia e Rosé. 

Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, finalizzato alla mappatura genomica del Nebbiolo, ha evidenziato l’importanza, nella definizione di questo vitigno, dei suoi “biotipi” o “sottovarietà”, ciascuno provvisto di specifici caratteri genetici, capaci di dare origine a vini molti diversi tra loro. La ricerca ha inserito il Picotener, nome adoperato erroneamente, in alcuni territori, come sinonimo di Nebbiolo, nel panel delle tre sottovarietà più rappresentative della cultivar da sottoporre ad analisi, delineandone le caratteristiche distintive, alcune vantaggiose per la coltivazione, altre meno, quali la resa produttiva inferiore, la resistenza più elevata a climi severi, la produzione di vini dall’aroma molto ampio e dal colore più intenso.

I nuovi proprietari dell’azienda Enrico Serafino hanno così deciso di recuperare e valorizzare questa antica sottovarietà, impiantando due vigneti di Picotener e avviandone la vinificazione in purezza già in via sperimentale nelle annate 2015 e 2016. La scelta, dettata da valutazioni ponderate su qualità e potenzialità del biotipo, è stata anche un omaggio alla figura del fondatore, che proveniva dal Canavese, territorio di cui il Picotener è originario e dove tuttora è coltivato per la produzione del vino Carema Doc. Il risultato di questa operazione è un Nebbiolo diverso, che potrà nel tempo influenzare gli orientamenti di un intero territorio, basato sull’utilizzo di una sottovarietà che è considerata autoctona, dunque autentica espressione del Piemonte, e che al momento ricade sotto la doc Langhe Nebbiolo, non esistendo ancora una doc specifica per il Picotener.

(Foto fornite dall’azienda Enrico Serafino di Canale d’Alba)

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