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Itinerario nel Monferrato sulle colline del Ruchè, tra castelli e pievi romaniche

ASTI. Il Ruchè, vitigno a bacca nera da cui si ricava l’omonimo vino, si coltiva in un’area ristretta, compresa nei confini di sette comuni a nord di Asti: Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo, Viarigi.

Veduta del castello di Montemagno

L’uva Ruchè, nota anche come Moscatellina nell’alessandrino, dà origine a un vino dai tratti marcati, con profumi intensi e note floreali (rosa, viola) e speziate (pepe nero), il Ruchè di Castagnole Monferrato, insignito della Docg (Denominazione di Origine Protetta e Garantita) nel 2010. Il vitigno, che secondo il disciplinare può essere vinificato in purezza o in combinazione con Barbera e Brachetto nella misura massima del 10%, prospera nei terreni della zona, calcarei, sabbiosi e argillosi, tra i 120 e i 400 metri d’altitudine.

L’origine del nome non è chiara: c’è chi ipotizza la derivazione dal piemontese ròche, in relazione ai dossi impervi e assolati prediletti dalla varietà, mentre altri studiosi suggeriscono un legame con la degenerazione infettiva della vite nota come roncet, verso cui l’uva Ruchè mostra particolare resistenza. Suggestiva è poi la tesi che fa derivare il nome del vitigno da San Rocco, San Ròch in piemontese (da cui Ruchè), perché a lui era devota la comunità monastica che, secondo una tradizione locale, l’avrebbe importato dalla Borgogna.

D’altronde è assodato il ruolo svolto dai monaci dell’Alto Medioevo nel garantire la sopravvivenza della viticoltura in Occidente, che essi propagarono ben aldilà dei confini in cui era giunta nel periodo romano, per esigenze connesse alla liturgia, ma anche perché il vino era considerato un alimento irrinunciabile nella dieta quotidiana e nella farmacopea del tempo veniva indicato come rimedio contro certe malattie. L’ipotesi dell’introduzione del Ruchè dalla Borgogna non ha trovato comunque riscontri nello studio condotto nel 2016, da cui emerge invece una parentela del vitigno con Croatina e Malvasia aromatica di Parma. Il vino ricavato dal Ruchè, che alcuni accostano al Gamay francese per la “nuance aromatica che contrasta con l’amaro del sorso finale” (Massobrio), venne rilanciato dagli anni Sessanta del Novecento per l’intuizione del parroco di Castagnole, don Luigi Cauda, che iniziò a proporlo vinificato in purezza.

Le vigne del Ruchè, intervallate a boschetti, prati, pascoli e campi coltivati a cereali, circondano con un verde abbraccio i paesi d’altura, che conservano l’impronta medioevale nell’irregolarità dell’impianto viario e nelle facciate in cotto di alcuni edifici. Le campagne celano gioielli d’arte romanica, pievi e chiesette, site in cima ai bricchi, a mezza costa tra le vigne o nei cimiteri: questi edifici di culto, che mostrano assonanze stilistiche tanto evidenti che si coniò per loro il nome di Scuola del Monferrato, crocevia di influssi padani, provenzali e borgognoni, vennero edificati per lo più tra X e XII secolo, quando la mappa del popolamento sulle colline piemontesi era diversa dall’attuale, e si possono dunque considerare, non avendo subito nei secoli rilevanti alterazioni, dei veri e propri “fossili” teletrasportati dalla Media Aetas ai nostri giorni. Dobbiamo immaginare che, attorno a queste chiese ora immerse nella quiete campestre, sorgessero in origine dei villaggi, poi abbandonati per un complesso di fattori che mutarono la cartina dell’insediamento, come la fondazione di villenove e borghi franchi. Queste chiese romaniche svolgevano spesso la funzione di pievi, antesignane delle odierne parrocchie.

Nell’area del Ruchè esistono esempi notevoli. I suggestivi ruderi della chiesa romanica dei Santi Vittore e Corona sorgono poco discosti dall’abitato di Montemagno, nei pressi del cimitero. Dell’edificio originario, risalente all’XI secolo e attestato nel 1345 come dipendenza della pieve di Grana, sopravvivono l’abside e il campanile. Fra i tratti distintivi della Scuola del Monferrato citiamo l’effetto cromatico dato dall’alternanza di conci di pietra arenaria e mattoni, l’assenza di cupole e transetto, la particolare struttura compositiva delle absidi e l’esuberanza dell’apparato scultoreo e ornamentale.

Chiesa dei Santi Vittore e Corona a Montemagno

Proprio per apprezzare quest’ultimo aspetto si consiglia una sosta alla chiesa di San Marziano, isolata alla sommità di un poggio nel territorio di Viarigi. La facciata venne aggiunta nel Seicento, ma l’edificio, datato dal Porter al 1180, conserva integra l’abside romanica. Qui si nota la ricchezza dell’apparato scultoreo, ispirato a temi tratti dal mondo vegetale e animale: nelle lunette degli archetti pensili e sui capitelli delle semicolonne si osservano elementi scultorei in rilievo, raffiguranti figure zoomorfe, teste bovine e equine, volatili, una scimmia, una testa di lupo, un pesce, accanto a figure antropomorfe, foglie di palma e motivi geometrici circolari, in un affastellarsi di segni cui si collegava un’efficacia simbolica per noi difficile da cogliere. Meritano una visita anche la chiesa di San Pietro a Portacomaro, sita su un’altura nel punto dove sorgeva l’antico cimitero, con facciata in mattoni e arenaria, e in frazione Maddalena di Refrancore l’omonima chiesa, seminascosta nella borgata, con tracce romaniche emerse nei recenti restauri.

La chiesa di San Pietro a Portacomaro

I paesi sono spesso dominati da elementi fortificati, resti di antiche fortezze e castelli imponenti che devono in parte l’aspetto attuale ai rifacimenti sei-settecenteschi, realizzati sia per rimediare ai danni bellici del periodo precedente, sia per assecondare la nuova destinazione residenziale di edifici che avevano perduto, con la stabilizzazione del contesto politico, l’originaria connotazione militare. A Viarigi fa bella mostra di sé in posizione dominante sul borgo la Torre dei Segnali, quadrata in mattoni rossi, che è quanto rimane di un castello incendiato nel 1316 dagli Alessandrini, in guerra contro il marchese del Monferrato. La torre, in seguito sopraelevata, fece parte di un sistema di posti di avvistamento e segnalazione “a mezzo di fuochi, fumate e specchi”. La triplice fascia di archetti pensili, che forma un finto apparato a sporgere nella parte sommitale, è un motivo ornamentale ricorrente nelle torri dell’Astigiano.

Salendo a Scurzolengo, toponimo d’origine longobarda per il suffisso in -engo, si nota sulla piazza principale il castello che, pur ridimensionato rispetto alla conformazione originaria, conserva intatto l’aspetto di fortezza trecentesca. Il complesso si articola in tre parti chiaramente distinguibili: un torrione con muratura a scarpa, un blocco centrale, anch’esso munito di scarpa, che incorpora una chiesa costruita proprio sugli spalti e sulla destra un fabbricato con i caratteri architettonici di un dongione.

L’edificio fortificato più significativo è però il castello di Montemagno, appartenente ai conti Calvi di Bergolo, la cui sagoma turrita si percepisce in tutta la sua imponenza arrivando in auto da Castagnole Monferrato. Vagando tra queste colline torna alla mente l’osservazione di un ambasciatore veneziano alla corte sabauda che nel 1566 annotava: “In questo consiste la bellezza del Piemonte, che mai si cavalca tre o quattro miglia che non si trovi qualche terricciuola” con le sue mura merlate e il suo castello signorile.

Risalente nel nucleo embrionale alla fine dell’XI secolo, il castello, dapprima assegnato da Federico Barbarossa alla giurisdizione dei marchesi aleramici, entrò nell’orbita del comune di Asti dal 1173, quando i signori di Montemagno, aderendo a una lega anti-monferrina, s’impegnarono a difendere il sito con venti cavalieri e venti fanti, una guarnigione nutrita per l’epoca, segno dell’importanza attribuita dagli Astigiani al controllo del paese, sito al confine con i territori monferrini. Il castello, saccheggiato nel 1290 dalle truppe di Guglielmo VII del Monferrato (in antiche fonti si legge che il marchese “Monte Magnum… devastavit per dies quinque”), venne poi ricostruito, ma rimase a lungo in bilico tra influenza astigiana e potere monferrino, sino al passaggio ai Savoia nel 1708.

Guardando il fabbricato, e visitandone le sale, si rileva il contrasto tra gli esterni, che mantengono i caratteri d’una fortezza del primo Trecento, con il repertorio decorativo tipico dei castelli astigiani, e gli interni, in gran parte riplasmati nel Settecento per iniziativa dell’allora proprietario, conte Callori, che lo volle trasformare in residenza di campagna senza però alterare l’involucro di fortificazione medioevale.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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