Il santuario di Nole Canavese e la devozione per San Vito Martire tra storia e leggenda
Da tempo immemorabile, a Nole Canavese, esiste una speciale venerazione popolare per San Vito, cui era dedicato un pilone votivo situato nelle campagne a sud del paese lungo il percorso che, dal centro abitato, conduce al greto del fiume Stura di Lanzo, in corrispondenza dell’antico guado.
Testimone di numerose richieste di grazia e di guarigioni miracolose, il pilone venne inglobato, a partire dalla fine del Cinquecento, all’interno di una chiesa campestre che, con il tempo, ingrandendosi per interventi successivi e attirando un flusso crescente di devoti, acquisì il rango di santuario. Qui, nella galleria a nord, aggiunta nell’Ottocento, è conservata un’ampia raccolta di ex voto, in maggioranza quadretti votivi che, nella loro semplicità, perpetuano il ricordo di grazie ricevute dai fedeli e attribuite all’intercessione di San Vito.
Il santuario di San Vito Martire si trova ancora oggi in aperta campagna, immerso in un ambiente tipicamente agreste, con pascoli e prati alternati a campi coltivati, lungo i percorsi che, per secoli, sono stati frequentati da nolesi, viandanti e lavoratori per raggiungere il fiume Stura, dove si prelevavano sabbia e ciottoli per i lavori edili da svolgere in paese, oppure per guadarlo, recandosi nelle terre situate aldilà del corso d’acqua, verso le Valli di Lanzo.
E’ questo il contesto in cui si manifestò, radicandosi nel tempo, la devozione per San Vito, che, ogni anno, raggiunge l’apice nel periodo attorno al 15 giugno, data della sua memoria liturgica. In questi giorni di inizio estate, vi è l’usanza, tuttora viva, di celebrare il compatrono del paese di Nole con una serie di iniziative che rappresentano un importante momento di espressione religiosa, ma anche un motivo di aggregazione comunitaria, come ad esempio la “merenda di San Vito” e il raduno dei bambini al santuario per la tradizionale benedizione.
Caratteristica del santuario di San Vito è la presenza, fin dal tempo della sua costruzione, di un custode, chiamato “eremita” (armit nel piemontese parlato a Nole), un laico che aveva il compito di provvedere alla pulizia e alla manutenzione del luogo sacro, sulla base di un accordo con la comunità che contemplava, a suo carico e in cambio di alcune rendite, precisi obblighi come il vestire l’abito clericale, servire le funzioni e, in generale, attendere alla custodia del santuario e dei locali annessi (Caterina Calza e Attilio Bonci in “Nelle terre di Margherita di Savoia”).
Dal 1794, per un lungo periodo, questo ruolo venne svolto da un personaggio di rilievo storico, il conte di Rivarossa, Vittorio Amedeo Cavalleri, che aveva fatto voto di ritirarsi in eremitaggio presso il santuario di San Vito Martire dopo aver ricevuto la grazia d’essersi salvato dalle conseguenze di una grave ferita riportata in battaglia. Come si legge sul volume di Aniceto Bello “Il santuario di San Vito in Nole. Tra fede e tradizione”, il conte visse per molti anni come custode del santuario, dedicandosi all’accoglienza dei fedeli, apportando migliorie alla struttura, come l’ampliamento della casa dell’eremita e del giardino annesso, e lasciando come ricordo tangibile della sua esperienza di vita religiosa un’edicola votiva che contiene la raffigurazione del ferimento del conte stesso e il voto fatto a San Vito.
All’interno del santuario, risalta l’altare maggiore che ingloba l’antico pilone votivo, con al centro la rappresentazione pittorica di San Vito, attorniato da San Giacomo Apostolo e San Pietro e, in alto, le figure della Madonna e di Gesù nell’atto di incoronare il martire porgendogli la palma del martirio e la croce. L’opera, come annota lo storico dell’arte Claudio Bertolotto, è il frutto dell’intervento di ridipintura di un affresco preesistente eseguita nel 1648 dall’artista Giovan Lorenzo Lega.
Ai lati dello scomparto centrale, si trovano due riquadri raffiguranti Sant’Antonio Abate e San Giovanni Evangelista. Il tutto si trova inserito all’interno di un elaborato dossale ligneo del primo Settecento, con spazi scanditi da colonne e putti scolpiti, che costituisce un’opera di pregio, attribuita dagli studiosi al probabile intervento di una bottega francese.
San Vito, fin dal periodo medievale, è annoverato nel gruppo dei cosiddetti “Santi Ausiliatori”, patroni celesti cui i fedeli si rivolgono per specifiche necessità, come la protezione da malattie o da avversità naturali. Stando alle non molte notizie a nostra disposizione, desumibili in particolare da una Passio del VII secolo, Vito era un siciliano, nato in seno a una famiglia pagana, ma convertito alla fede cristiana, grazie alla nutrice Crescenzia e al precettore Modesto.
Vito andò incontro, nella sua breve esistenza terrena, a crudeli persecuzioni: denunciato dal suo stesso padre al preside (governatore) della Sicilia, Valeriano, venne da questi fatto incarcerare e tormentato in vari modi ma, dopo la fuga e un lungo peregrinare, s’imbarcò alla volta della Lucania (antico nome dell’odierna Basilicata), dove proseguì l’opera di predicazione. Essendo giunta fino alla corte imperiale la fama dei prodigi da lui compiuti, l’imperatore Diocleziano, lo spietato persecutore dei Cristiani, convocò il giovane per chiedergli di guarire il figlio, probabilmente affetto da epilessia, malattia un tempo scambiata, per gli effetti che provoca, per possessione diabolica.
Sempre stando a questa ricostruzione in cui si mescolano realtà storica e sovrapposizione leggendaria, il giovane Vito, malgrado la guarigione compiuta, venne comunque fatto arrestare, per ordine dell’imperatore, contrariato dal suo rifiuto a sacrificare in onore degli dèi.
Da questo momento, si succedono i racconti di torture subite da Vito, dall’immersione in un pentolone ricolmo di pece o olio bollente alla condanna ad essere sbranato dai leoni che, invece di aggredirlo, si ammansirono alla sua vista. La morte avvenne il 15 giugno 303, in conseguenza degli insopportabili patimenti inflitti, presso la Piana del fiume Sele, oggi compresa nei confini amministrativi della Campania, dove si trova l’area archeologica di San Vito al Sele. Da questo luogo, le spoglie mortali di Vito e dei compagni di martirio, Crescenzia e Modesto, vennero traslate “in loco qui dicitur Marianus”, l’odierna Marigliano (Napoli), dove da tempo immemore i devoti accorrono per venerare la tomba di San Vito.
Nell’iconografia tradizionale, San Vito è raffigurato con attributi che variano in funzione dell’area geografica e culturale. Ad esempio, in molte regioni italiane è raffigurato insieme con uno o due cani, circostanza interpretata in modo difforme dagli studiosi, ma comunque legata a una delle proprietà taumaturgiche riconosciute al martire, quella di proteggere e guarire dall’idrofobia, dovuta ai morsi di cani rabbiosi. Inoltre, tradizionalmente, i fedeli si rivolgono alla sua intercessione, come santo taumaturgo, nei casi di epilessia e di corea, volgarmente detta “ballo di San Vito”, e nei disturbi dovuti a possessione diabolica.
Nell’area germanica, il martire siciliano è spesso rappresentato come un giovinetto immerso in un paiolo, con il fuoco acceso sotto, evidente riferimento a una delle torture cui fu sottoposto.
Il culto per San Vito si diffuse molto nelle terre degli Slavi, sia per l’assonanza del suo nome, Vit o Vid nelle lingue slave, con quello di una divinità pagana del pantheon slavo antico, Svetovit o Svevovid, dio della guerra e della fertilità, sia per le vicende legate alle reliquie del martire che, scomparse durante la guerra dei Trent’anni (1618-48), giunsero nella stessa epoca a Praga in Boemia, dove la cattedrale costruita nel X secolo, era dedicata proprio a San Vito.
E’ interessante notare come, presso i popoli slavi del sud, ad esempio tra i Croati e i Serbi, San Vito sia anche il taumaturgo invocato per le malattie degli occhi, allo stesso modo di Santa Lucia in Italia, e questo è dovuto alla relazione linguistica tra il verbo “vid”, che indica il vedere, e il nome del santo, Vid.
In Piemonte, oltre al caso di Nole Canavese e a un certo numero di parrocchie e cappelle a lui intitolate, la devozione per San Vito è particolarmente sentita a Omegna, sul lago d’Orta, che lo ha proclamato compatrono della città. Qui, le reliquie del santo martire giunsero nel 1611, portate dal vescovo di Novara Carlo Bescapè, allo scopo di rinsaldare la fede cristiana dei cusiani in un periodo turbolento come quello della Controriforma.
Paolo Barosso