ENOGASTRONOMIA

Montébore, il formaggio piemontese a forma di torta nuziale dal sapore unico al mondo

Dopo un periodo di oblio, questo prodotto caseario tipico del versante piemontese dell’Appennino Ligure, a ridosso del Genovesato, oggi è tornato ad essere uno dei formaggi più ricercati per il suo gusto inimitabile

DERNICE. Lo sposalizio tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Maria Sforza venne celebrato a Napoli nel dicembre 1488, ma i superbi  festeggiamenti per quello che venne ricordato come il matrimonio del secolo si tennero a Milano, al Castello Sforzesco. A realizzare la sfarzosa e memorabile scenografia fu niente meno che Leonardo da Vinci, ingegnere e artista di corte di Ludovico il Moro. Il pantagruelico banchetto non fu meno grandioso: le portate, per abbondanza, originalità e decori, erano in grado di stupire e deliziare gli occhi e i palati di decine di fortunati commensali. A concludere quel desco luculliano, pare ci fosse anche un formaggio piemontese semi-sconosciuto ai più, ma dal sapore sublime e dalla forma insolita e curiosa. Era quello che oggi chiamiamo Montébore, il cui sapore apparve subito come una vera rivelazione, tanto da sollevare ampi cenni di approvazione da parte di tutti i convitati, con richieste di ripetuti bis, nonostante che la maggior parte delle pance – a fine pranzo ‒ fossero già abbondantemente rimpinzate.  Non fu dunque un caso se quella fastosa festa nuziale, celebrata con stupore e ammirazione dagli ospiti e commentata con entusiasmo dalle cronache dell’epoca, venisse definita la Festa del Paradiso. E pare effettivamente che proprio in quella solenne occasione abbia fatto il suo esordio ufficiale quel formaggio piemontese la cui produzione era ancora di nicchia, ma che fu apprezzatissimo dai partecipanti al banchetto.

Un sontuoso banchetto d’altri tempi

E neppure c’è da stupirsi che quel saporito formaggio ‒ di lì e per molti secoli ‒ finisse per tenere banco sulle più raffinate tavole lombarde e liguri. Era prodotto sul versante piemontese dell’Appennino Ligure, a ridosso del Genovesato, soprattutto nel comune di Dernìce (l’antica Darnisium), un piccolo borgo che oggi conta solo un paio di centinaia di anime, e in alcune borgate vicine, come Montébore e Calvadi, nonché in alcuni borghi delle valli a Oriente di Novi Ligure e Tortona. Non c’è da stupirsi, dicevamo, del successo di quel pregiato formaggio perché quei luoghi erano attraversati dalla Via del Sale e i prodotti caseari del luogo erano diventati ambita merce di scambio (insieme ai cereali, al vino e alla canapa del Piemonte, destinata alla produzione di cordame ad uso nautico) con le non meno pregiate specialità liguri come olio, olive, acciughe e altre derrate alimentari rivierasche. La vicinanza con l’Oltrepò Pavese, parimenti, facilitava gli scambi commerciali incrociati tra il basso Piemonte con le terre lombarde.

Un ritratto di Isabella d’Aragona, consorte di Gian Galeazzo Sforza

A un certo punto, però, la produzione del Montébore andò via via scemando, anche per un minor interessamento dei margari a questo prodotto caseario, e di quel formaggio tipico locale si persero quasi definitivamente le tracce, tanto che sul finire degli anni Novanta del Novecento la sua produzione era ormai retaggio di pochissimi margari.

Nel 1997, finalmente, con il Progetto di Filiera Casearia delle Comunità Montane delle Valli Curone-Grue-Ossona, delle Valli Borbera e Spinti, delle Terre del Giarolo (e in particolare del comune di Mongiardino Ligure) e con il sostegno dalla Comunità Europea, i casari del territorio, presa coscienza delle potenzialità di mercato di questo formaggio di particolare squisitezza e dalle esclusive caratteristiche organolettiche, hanno fatto gruppo insieme per rilanciare l’antico prodotto.

Attraverso l’esperienza e la memoria storica degli antichi produttori (come Carolina Bracco), in collaborazione con l’Istituto Caseario di Moretta e della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, si è così ricodificata la tradizionale tecnica casearia di lavorazione del Montébore.

Forme di Montébore in fase di stagionatura

Il Montébore viene realizzato con latte crudo (lavorato alla temperatura di 36°), di cui circa due terzi (tra il 60 e il 70%) è di mucca e per il restante terzo (tra il 30 e il 40%) è ovino, a cui viene aggiunto un caglio naturale.

La cagliata, rotta con un cucchiaio di legno, viene poi posta nelle formelle. Gli stampi (detti ferslin) sono a forma di una piccola torre di Babele a tre o più strati (caratteristica probabilmente unica al mondo!), o se vogliamo, di una mini torta nuziale: praticamente tre (ma talora anche quattro o cinque) tronchi di cilindro sovrapposti, dal diametro decrescente.

Nel corso della mezz’ora successiva all’invaso, le forme vengono rigirate diverse volte. Poi, si procede alla salatura manuale, utilizzando sale marino (come impone la tradizione casearia di questi luoghi, disposti – come già ricordato ‒ lungo un’importante Via del Sale).

Una forma di Montébore, con il suo tipico aspetto a torre di Babele

La stagionatura si può protrarre fino a tre-quattro mesi.

La crosta, inizialmente liscia e umida, con la stagionatura tende diventare più asciutta e rugosa, con un colore che sfuma dal bianco al giallo paglierino. La pasta è uniforme o leggermente occhiata, di colore chiaro. Il peso medio di ogni forma varia tra i 500 grammi e i 1000 grammi.

Dopo quell’aneddotico primo esordio ufficiale del Montébore, probabilmente avvenuto alla corte di Ludovico il Moro, più di quattro secoli dopo, e precisamente nel 1999, la Cooperativa Agricola Vallenostra espose nel proprio stand allestito al “Cheese” di Bra una mezza dozzina di forme di Montébore. Quel formaggio a forma di torta, fetta dopo fetta, andò subito a ruba, e colpì la stampa internazionale, per l’insolita forma, certo, ma soprattutto per il suo eccellente sapore.

Una forma di Montébore di media stagionatura

Iniziò così la seconda brillante vita del Montébore, caratterizzata da crescenti successi e notorietà. E non poteva che essere così per questo formaggio piemontese d’eccellenza, che quando lo si tasta, delizia le bocche, presentandosi dapprima latteo e burroso al palato, per poi rilasciare un gustoso mix di sapori che rievocano nuances ed aromi erbacei.

Il Montébore può essere naturalmente consumato puro. Ma il suo sapore si esalta se lo si abbina alle marmellate di agrumi, o alla cognà (la tipica confettura albese e monferrina a base di mosto di uva dolcetto, mele renette e pere). Ottimo anche il connubio con il miele di castagno, con le noci e con i fichi. Il Montébore si rivela eccellente anche con gli gnocchi e i risotti, per il suo apporto di gusto tra il sapido e il piccante, che resta tuttavia sempre discreto, elegante e gradevolmente aromatico.

Sergio Donna

Info: Agata & Roberto | https://www.vallenostra.com | info@caseificioterredelgiarolo.it

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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