Site icon PiemonteTopNews

I “castelli di Lagnasco”, scrigno d’arte e di storia appartenuto ai marchesi Taparelli

 

LAGNASCO. Nella prima decade di dicembre l’amministrazione comunale di Lagnasco nel Saluzzese ha formalizzato l’acquisto dei castelli Taparelli (o Tapparelli) d’Azeglio, monumentale complesso architettonico appartenuto all’insigne famiglia dell’aristocrazia piemontese, che si distinse dapprima mettendosi al servizio dei marchesi di Saluzzo e poi, a partire dal primo Seicento, legandosi ai duchi di Savoia. L’atto sancisce il passaggio di proprietà della storica dimora dalla Residenza “Emanuele Tapparelli d’Azeglio”, l’ex Opera Pia cui l’ultimo discendente della “onesta e onorata” stirpe dei Taparelli aveva destinato nel 1888 la parte più cospicua del suo patrimonio, al comune di Lagnasco, che ambisce a valorizzare l’immobile trasformandolo in un punto di riferimento del turismo culturale del territorio, famoso per la coltivazione della frutta.

Emanuele Taparelli d’Azeglio, nipote del celebre statista Massimo e ultimo del suo lignaggio, fu appassionato collezionista di oggetti di arte applicata, legati a tecniche di lavorazione poco note e indagate, ed è noto per il suo impegno in ambito culturale, di cui ancor oggi gli siamo debitori: lasciò infatti al Museo Civico di Torino, di cui fu direttore, importanti raccolte di porcellane, maioliche, vetri graffiti a oro e dipinti, e fece dono al comune di Saluzzo di Casa Cavassa (oggi Museo), prestigiosa residenza dei Cavassa, casato originario di Carmagnola, di cui il Taparelli aveva finanziato i restauri impreziosendola con arredi e opere d’arte.

Gli ambienti interni del complesso di Lagnasco conservano un sorprendente corredo decorativo, con significativi esempi di manierismo pittorico, tra i più importanti del Piemonte, dovuti all’intervento di artisti attivi nella seconda metà del Cinquecento, quali Cesare Arbasia, Giacomo Rossignolo e Pietro Dolce da Savigliano.

Per le peculiari caratteristiche la residenza, situata a levante del paese, è conosciuta come i “castelli di Lagnasco”, al plurale, perché l’edificio, frutto di diverse fasi edilizie, non appare compatto, bensì formato dall’accostamento di più fabbricati, autonomi tra loro e costruiti in epoche diverse. Attorno al nucleo fortificato centrale, risalente al XII/XIV secolo, una struttura a corte difesa da torri angolari, si formò infatti nei secoli successivi un apparato edilizio molto articolato, con l’aggiunta di due maniche laterali che, percepite come edifici a sé stanti, furono battezzate castello di ponente e castello di levante.

Ricordiamo al riguardo che in Piemonte al vocabolo “castello” si attribuisce un significato ampio, comprendendo, come per lo chateau francese, sia edifici con funzione residenziale derivati della trasformazione di fortezze preesistenti, sia fabbricati costruiti nell’Ottocento secondo i criteri del revival storicistico e finanche i caseggiati urbani, dimore della nascente borghesia industriale, ispirati nelle fantasiose forme architettoniche e soluzioni estetiche all’immagine romantica del castello, identificato come “status symbol” e percepito quale proiezione nel presente d’un passato nobilitante, nostalgicamente evocato.

Anche il complesso di Lagnasco risulta dall’evoluzione in senso residenziale tra XV e XVI secolo di una precedente fortezza, corrispondente grosso modo alla manica centrale dell’odierna costruzione, che dalla metà del XII secolo fu presidio dei marchesi di Busca. Discendenti dal capostipite Guglielmo, figlio di Bonifacio del Vasto, esponente d’un ramo della famiglia marchionale aleramica, i marchesi di Busca governarono per un certo periodo su vasti territori incentrati sulla loro piccola “capitale”, Busca, ma persero l’autonomia a partire dalla fine del Duecento con l’assoggettamento ai più potenti marchesi di Saluzzo, anch’essi di ceppo aleramico.

Il feudo di Lagnasco, seguendo le sorti dei marchesi di Busca, entrò quindi nell’orbita dei signori di Saluzzo, venendo coinvolto nelle lotte di questi contro gli Angioini per il predominio politico nel Piemonte meridionale. Risale al 1341, per decisione del marchese di Saluzzo Tommaso II, che necessitava di denaro, l’alienazione del feudo di Lagnasco a due soggetti diversi, Petrino Falletti d’Alba e Gioffredo Taparelli di Savigliano. Nel 1370 la situazione conflittuale scaturita da questa vendita venne risolta con un arbitrato del conte di Savoia Amedeo VI che impose ai Falletti di cedere la loro quota, ponendo le premesse per il consolidamento del feudo nelle mani dei Taparelli, nobile famiglia che, secondo la tradizione, era giunta in area piemontese dalla Bretagna al seguito degli Angiò e che, dopo aver acquisito nel tardo Medioevo le terre di Genola, Maresco e Lagnasco (contea dal 1612), assurse nel 1788 alla dignità marchionale con l’elevazione a marchesato del possedimento di Azeglio nel Canavese.  

La notevole prolificità dei Taparelli, che diedero origine nel tempo a più rami, come si può ben vedere dall’albero genealogico conservato nel museo di Casa Cavassa a Saluzzo, unitamente ai molteplici legami matrimoniali con altri casati, spiega la frammentazione che caratterizzò nei secoli la proprietà del complesso di Lagnasco. Mentre il cosiddetto castello di levante rimase sempre nella disponibilità dei Taparelli, altre porzioni del maniero appartennero a famiglie diverse: ad esempio, la parte rivolta a nord fu fino al Settecento dei conti Vacca di Piozzo, mentre l’area centrale, sino alla seconda metà dell’Ottocento, appartenne a Carlo Alberto Pilo Boyl di Putifigari, esponente della nobile famiglia sarda, d’origine aragonese, dei Pilo Boyl (derivata in realtà dall’unione dei Boyl con i Pilo), prima baroni e poi dal 1757, per concessione di re Carlo Emanuele III di Savoia, marchesi di Putifigari.

Figura chiave nelle vicende costruttive dei castelli di Lagnasco fu Benedetto I Taparelli, consigliere dell’ultimo marchese di Saluzzo, Gabriele, che l’aveva designato con patenti del 1549 alla carica di giudice, e successivamente, con l’occupazione francese del marchesato, investito di incarichi governativi dal re di Francia Carlo IX di Valois, che lo nominò vicario e assessore generale del piccolo Stato, ridotto a protettorato francese, poi annesso dal 1601 agli Stati di Savoia. Fu Benedetto I a commissionare tra il 1550-55 e il 1570 la prima tranche degli imponenti lavori di ingrandimento e aggiornamento stilistico della dimora di famiglia, e a quest’epoca si riconduce in gran parte il sorprendente ciclo di affreschi delle sale interne realizzato con il contributo di artisti di prim’ordine indentificati dalla critica in Cesare Arbasia, attivo in Piemonte, a Roma e in Spagna a Cordova e Malaga, Pietro Dolce da Savigliano, che lavorò a Lagnasco con il figlio Giovanni Angelo, eseguendo anche (forse) gli affreschi esterni con effetti illusionistici, e Giacomo Rossignolo, pittore di corte sabauda dal 1563, soprannominato “Giacomo delle Grottesche” per la sua specializzazione nel genere ricordata anche nell’epitaffio funebre in parte ancora visibile nella chiesa torinese di San Tommaso (M.G. Bosco).

Il cantiere venne poi proseguito dal fratello di Benedetto I, Giovanni Maria, vescovo di Saluzzo, e dai successori. Tra gli ambienti più significativi dovuti a queste fasi di rinnovamento si segnala nel castello di ponente la Sala di Giustizia, considerato un vero e proprio capolavoro dell’architettura d’interni, con i suoi giochi cromatici e chiaroscurali, sovrastato da un magnifico soffitto a cassettoni dipinti. L’equilibrio compositivo degli elementi ornamentali deriva da una sapiente disposizione nello spazio, fedele a un preciso programma iconografico in cui qualcuno ha visto l’intervento di Antonino Tesauro, esponente d’un casato fossanese fedele ai Savoia e legato da vincoli di parentela con i Taparelli (Laura Facchin): fra questi spiccano nel fregio i medaglioni in stucco con gli amori di Giove alternati a figurazioni mitologiche, negli intradossi di porte e finestre le decorazioni a grottesche del Rossignolo, al centro delle pareti i grandi riquadri simili ad arazzi con “exempla” ispirati all’equità del diritto romano, derivati dall’opera di Valerio Massimo dedicata all’imperatore Tiberio, nelle sovrapporte i paesaggi con rovine attribuiti a Cesare Arbasia. Risulta evidente la finalità encomiastica dell’apparato decorativo, concepito per celebrare le competenze giuridiche e le qualità morali del committente Benedetto I Taparelli.   

Nel castello di levante, riallestito su committenza di Claudio, successore di Benedetto, si ammira il Salone degli scudi, ornato da un fregio araldico con 167 arme di famiglie subalpine, e la loggetta delle Grottesche, attribuita all’entourage familiare di Pietro Dolce, suggestivo ambiente dominato da due grandi scene di paesaggio, la prima contenente una veduta della residenza e dei giardini e la seconda raffigurante episodi di vita agreste in un contesto ambientale spoglio e punteggiato da architetture all’antica, secondo il gusto fiammingo.  

Il ciclo pittorico, considerato un significativo esempio di manierismo in Piemonte, appare infatti influenzato dalla cultura fiamminga che nel XVI secolo approda ad esiti diversi da quelli del Rinascimento toscano, con tratti peculiari come il senso atmosferico degli sfondi paesistici, l’attenzione quasi ossessiva per il dettaglio, il simbolismo.

Come già evidenziato, risulta di largo impiego a Lagnasco la cosiddetta decorazione con grottesche, una moda affermatasi a partire dal 1480 (e proseguita nel Cinquecento) dopo la scoperta a Roma sull’Esquilino di vani sotterranei affrescati, scambiati all’inizio per grotte (da qui il termine “grottesche”), in realtà contenenti le vestigia della Domus Aurea neroniana. Molti pittori, calandosi all’interno, studiarono gli affreschi, caratteristici del Quarto Stile della pittura romana, con il proliferare di figure umane e animali, mostruose, ibride, chimeriche, fantastiche, alternate a motivi vegetali, armi, anfore, maschere, e presero ad imitarli. Significativa, nel castello di levante, è la scena con l’albero genealogico degli gnomi, che prende vita da un vecchio satiro dormiente, versione profana dell’albero di Jesse, raffigurante gli antenati di Cristo sui rami d’un albero che spunta dal ventre o dal dorso di Jesse, capo del sinedrio, padre del biblico re Davide e capostipite della dinastia regale di Gesù.

Paolo Barosso

Exit mobile version