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Delitti torinesi dell’Ottocento: il duplice omicidio di via Lagrange

TORINO. Tra i delitti che suscitano grande scalpore nella seconda metà dell’Ottocento a Torino c’è da annoverare sicuramente quello che porta alla sbarra Giovanni Pipino. Il fatto di sangue raccapricc­iante viene risolto in pochi giorni e anche il processo si svolge con una sollecitudine che oggi sarebbe impensabile, abituati come siamo alle spaventose lungag­gini della burocrazia giudiziaria.

Il crimine  colpisce l’opinione pubblica, soprattutto perché si tratta di un duplice omicidio caratterizzato da risvolti tali da alimentare l’immaginario collettivo. Va inoltre tenuto in debito conto che allora i mass media sono ancora lontani nel tempo, quindi la cassa di risonanza della comunicazione non ha il ruolo attuale. Malgrado ciò, le brutte notizie viaggiano rapidamente coinvolgendo un ampio numero di persone che, in un modo o nell’altro, sentono il bisogno di vedere, di curiosare sul luogo del crimine; ognuno vuole dire il proprio parere, sostiene la colpevolezza o l’innocenza. Stabilire una pena. Insomma, niente di nuovo sotto il sole.

Ecco come l’evento viene descritto dal periodico”Cronaca dei tribunali: «L’onda del popolo che si riversa nel pretorio è straordinaria. Tutti vogliono vedere Pipino, tutti vogliono sentirlo parlare, tutti vogliono sapere come andrà la cosa. A trattenere la folla, oltre i soliti agenti di questura ed i soliti carabinieri, c’è un drappello di soldati alpini. Tutti vorrebbero entrare, ma è vietato il passo a chi vuole avanzarsi senza essere munito di biglietto».

Il redattore segnala che tra il pubblico vi è Edmondo De Amicis e non riesce a fare a meno di avvertire un senso di paradosso: «Che brutto dramma è cotesto, quanto luttuosamente contrasta quelle gentili figure, quelle care scene della vita che ella ci sa così maestrevolmente e delicatamente porre innanzi».

A questo punto, facciamo però un passo indietro. La vicenda ha come scena il numero civico 14 di via Lagrange, nell’isolato posto tra via Cavour e via dell’Ospedale (attuale via Giolitti), ad una cinquantina di metri dalla Questura. Al secondo piano di quella casa abita Angelo Mustone, medico di 84 anni che viene descritto come “sano e vegeto, misantropo”. Sicuramente un uomo facoltoso, il cui patrimonio è valutato sulle a 60 mila lire. Con lui in casa vive una bella fantesca, Lucia Magis, 25 anni, la quale ha massima libertà e dispone come vuole per l’organizzazione della casa. Il dottor Mustone chiama la ragazza Lussiòta e con quel nomignolo è conosciuta da tutto il vicinato.

A partire dalla sera dell’8 settembre 1878, domenica, né il dottore né Lussiòta vengono più visti dal vicinato: si pensa che siano andati in campagna e la storia finisce lì. Il mercoledì successivo, un carrettiere di passaggio si rivolge al portiere dello stabile chiedendo se la notizia che il dottor Mustone sia stato ucciso corrisponda al vero. Il portiere è un po’ stupito da quella domanda e quindi prova insistentemente a suonare alla casa dell’anziano medico. Non ottenendo alcuna risposta, si rivolge al nipote di professione avvocato, il quale cade completamente dalle nuvole. Qualche ora dopo, il legale preoccupato, con alcuni amici, decide di entrare nell’appartamento: dopo aver abbattuto l’uscio, la tremenda scoperta. Lucia giace sul letto appoggiata sul lato destro. La faccia riconoscibile, il corpo in avanzato stato di putrefazione. Una larga ferita di rasoio alla gola l’ha uccisa. In un’altra stanza, a bocconi a terra, giace l’anziano.

Il duplice omicidio rimarrebbe probabilmente impunito se un agente di polizia, il brigadiere Tommaso Bianchi non decida di indagare sulla figura del cugino della Magis che in più d’una occasione era stato a far visita alla fantesca. Lo cerca, lo trova, lo spia e lo interroga. Si chiamava Giovanni Pipino, 37 anni,  negoziante di cereali con una una piccola bottega all’angolo tra via San Francesco da Paola e via Borgonuovo (l’attuale via Mazzini). Il poliziotto, aiutato da tutta una serie di testimoni, giunge alla certezza che il Pipino sia il colpevole. Interrogato, l’accusato non possiede un alibi che possa scagionarlo. A quel punto gli inquirenti abbandonano qualsiasi altra pista e non viene neppure valutata la possibilità che egli abbia agito con la collaborazione di un complice. Il 15 settembre 1878, l’uomo viene arrestato.

Le accuse sono pesanti e gravi. La Corte d’Assise di Torino lo ritiene colpevole «di grassazione accompagnata da omicidio, commessa in Torino approssimativamente dalle undici alla mezzanotte dell’8 settembre 1878 nell’abitazione del dottore chirurgo Angelo Mustone, posta al 2° piano della casa di via Lagrange 14, sulla persona del predetto Mustone e di Magis Lucia, fantesca di lui, per avere dopo di essersi introdotto in detta casa col proposito di depredazione, mediante affilato rasoio, cagionato a questa un’enorme profondissima ferita lunga 16 centimetri di varia larghezza, che dal mezzo del muscolo sternocleido-mastoideo di destra si estendeva obliquamente attraverso alla regione sotto-ioidea sino ad interessare il muscolo sternocleido-mastoideo di sinistra, dividendo la cartilagine tiroide sinistra, e penetrando nella cavità laringea con parziale recisione della carotide primitiva destra, ferita questa, sebbene più lentamente, mortale; parecchie minori ferite, una alla spalla destra, opera d’un forchettone lasciatovi infisso, tre all’avambraccio destro, una alla mano, una sesta alla regione toracica, ed alcune ecchimosi per la vita, di queste ultime una fatta pure con rasoio, le altre più probabilmente con arma pungente e tagliente; le ecchimosi derivate dalla caduta o pressioni violente e colpi. Depredando quindi il Mustone di quattro obbligazioni del prestito di Napoli e di tre obbligazioni dello Stato, di cui due del 1849, la terza del 1850, segnate coi numeri 9692, 10268, 10424, oltre ad altri oggetti di valore; e la Magis di un paio di orecchini con smalto azzurro».

La sentenza è scontata e la corte condanna Pipino alla pena della morte. Il verdetto giunge in aula dopo solo dieci minuti di camera di consiglio: si dice che quel giudizio è in qualche modo già stato scritto. In effetti, Pipino non è gradito all’opinione pubblica: la vox populi l’ha già condannato e i giornali, da parte loro, hanno contribuito a demonizzarlo. Un esito dubbio che ancora oggi suscita qualche perplessità, soprattutto perché viene adottato, nei confronti dell’imputato, un atteggiamento forse eccessivamente repressivo. Per l’accusa non ci sono dubbi: gli affari del Pipino andavano male ed egli era pieno di debiti. Di qui la grassazione, ossia l’aggressione a mano armata a scopo di rapina, seguita dal duplice omicidio. Una prova schiacciante per la corte è il danaro di cui l’uomo è trovato in possesso e che non può appartenere ai suoi proventi di negoziante, bensì frutto della rapina.

Il processo fa epoca, ma non dissipa tutte le ombre sul caso e forse proprio per questo la pena di morte viene commutata, il 23 settembre del 1879, nei lavori forzati a vita. Il Pipino è rinchiuso nel carcere di Final Borgo dove continua a protestare la propria innocenza, fino al 29 ottobre del 1901, quando la pena perpetua viene commutata in transitoria, chiudendo definitivamente una tragica vicenda che ha appassionato l’Italia intera.

 

 

 

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