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Dalle aule del Politecnico è nata l’arnia Hi-tech per salvaguardare le api

 TORINO. Quasi a tutti è capitato, almeno una volta nella vita, di sentire la famosa frase «Se le api scomparissero dalla terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita!»; falsamente attribuita al celebre Einstein, premio nobel per la Fisica, l’origine di questo periodo a sfondo apistico è, probabilmente, ben più recente e, più precisamente, da incorniciare nel quadro della manifestazione pubblica a sostegno degli apicoltori tenutasi a  Bruxelles il 1994.

Nell’onda del moderno sensazionalismo mediatico, spesso rasente toni apocalittici degni di una pellicola holliwoodiana, il problema della recente scomparsa dei “piccoli insetti” trasportatori di polline è stato ora sopravvalutato, ora sottovalutato, ora utilizzato per campagnie pubblicitarie che, essenzialmente, poco avevano a che fare con l’effettiva natura dell’argomento. Cerchiamo di farci luce! Qual è, quindi, la portata di questa “moria” d’api e quali sono i suoi effetti sull’ecosistema?

Se non si provvederà per tempo, nel 2035 le api potrebbero scomparire. Di positivo c’è il fatto  che, nel 2017, il numero di alveari persi, almeno negli Stati Uniti, è diminuito del 27% rispetto all’anno precedente.  Anche in Italia,  grazie alla legge sulla sospensione dei neonicotinoidi, i casi di moria primaverile sono diminuiti in maniera sostanziale.

La CCD (Colony Collapse Disorder o, tradotto, la “sindrome dello spopolamento degli alveari”), riscontrata in seguito alla enorme diminuzione delle api in America settentrionale tra il 1974 ed il 2007, non è un fenomeno con un’unica causa ed un unica soluzione, anzi è, per certi versi, un vero e proprio mistero della entomologia moderna. Colpita dalla CCD, una colonia viene abbandonata: le api adulte spariscono e l’unica a rimanere è la regina. Le cause possibili sono diverse: dall’uso  di pesticidi (bene notare che non ci sono prove certe sulla relazione tra l’uso di questi ed il manifestarsi della CCD) allo spopolare negli alveari del Varroa Destructor, acaro che si nutre del sangue delle api.

Insomma, non ci sono notizie certe e la scienza, almeno sul versante della comprensione del problema, si sta ancora muovendo. D’altronde, è un fenomeno dalla portata pressoché globale e, sfortunatamente, non l’unico che, in maniera grave, danneggia un’economia dal valore superiore ai 15 miliardi di dollari. Basti pensare che, per fare un esempio, il valore economico delle api in Gran Bretagna è stato valutato, nel 2012, pari a 651 milioni di sterline, mentre le “entrate” date dalla famiglia reale grazie al turismo sfiorano “appena” i 151 milioni di sterline.

3Bee, startup lombarda, si muove proprio in questo campo: dalle classi del Politecnico di Torino, l’idea di Niccolò Calandri, Elia Nipoti e Riccardo Balzaretti (nella foto sopra) aiuta sia l’ape che l’apicoltore, grazie all’introduzione di un’arnia hi-tech capace di analizzare l’ambiente interno del “nido” e dei suoi abitanti, condividendone i dati in rete e, quindi, tra gli esperti del mestiere. L’obiettivo fine? La creazione di un Network «così ampio da permettere uno studio veloce dei problemi delle api».

L’arnia hi-tech, vincitrice del premio Barilla come una delle più importanti 10 invenzioni al mondo sul fronte della sostenibilità, punta, dal prossimo anno, ad arrivare in Svizzera e Germania e, a modesto parere di chi scrive, sembra che ne abbia proprio tutto il merito.

 

 

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