Considerazioni sulla lingua piemontese che molti scambiano per un astruso dialetto

(PRIMA PARTE)

TORINO. Il piemontese è considerato una lingua a sé, e senza riserve, dai glottologi di tutto il mondo: una lingua romanza (parallela all’occitano e al Franco-provenzale) e come tale è riconosciuta dal Consiglio d’Europa fin dal 1981, e dall’Unesco, che la ritiene un prezioso patrimonio culturale e linguistico da tutelare.

Eppure molti continuano a porsi e a porre una domanda che per me è diventata un tormentone: “Il piemontese è una lingua o un dialetto?”. Ogni volta che questa domanda mi viene rivolta, rispondo con fermezza e convinzione che il piemontese è una lingua a tutti gli effetti. Ma se riesco a convincere un interlocutore, ce ne sono già almeno altri cento pronti ad alzare la mano per ripropormi la stessa domanda.

Ebbene, con immutata pazienza e spero con adeguata chiarezza espositiva, provo a ripetermi, con la speranza che queste mie considerazioni possano convincere una volta per tutti coloro che si crogiolano in questo dubbio logorante.

Il piemontese ha un suo lessico, una sua letteratura, una sua grammatica e una sua grafia normalizzata. Le sue origini risalgono al XII Secolo (Sermoni piemontesi): una genesi persino più antica dell’Italiano. È certamente una lingua neolatina, ma con una propria identità. Per rendere l’idea, potremmo dire che il piemontese sta all’occitano come il portoghese sta allo spagnolo, o come l’olandese sta al tedesco. Con l’italiano ha ben poco da spartire, se non la matrice neo-latina.

Il termine “dialetto” è nobilissimo quando lo si usi come sinonimo di vernacolo o di lingua locale o regionale, ma diventa discriminante quando venga usato con quel registro sprezzante che equipara una parlata locale ad una volgare storpiatura dell’italiano.

Per la sua plurisecolare e pregevole Letteratura, con pagine di alto valore artistico lasciateci da moltissimi poeti e scrittori subalpini (soprattutto nei secoli XVIII, XIX e XX), ma anche per il cospicuo numero di “piemontesofoni” che vivono in Piemonte o sono sparsi nel mondo, nonché per la musicalità, la tipicità di certi suoni, di certi termini assolutamente autoctoni, di certe frasi idiomatiche, e per la completezza del lessico, non possiamo proprio pensare che il piemontese sia un dialetto.

Il termine “dialetto”, almeno in quell’accezione negativa cui avevo fatto cenno, presuppone la subordinazione, l’assoggettamento di una parlata locale ad una lingua di riferimento, di cui rappresenta una variante, una rilettura, o peggio una deformazione.

Il piemontese non è subordinato a nessun’altra parlata: è una lingua a tutto tondo, indipendente e inequivoca. Tutt’al più è figlia del latino: ma il latino ‒ si sa ‒ è la madre di decine di lingue, sorelle tra loro, ma ognuna con un’identità e una personalità propria.

Io ammiro tutte le parlate locali, dialetti o lingue di minoranza che siano, perché arricchiscono il patrimonio culturale di un popolo. Ma occorre essere precisi nell’uso dei termini e nell’attribuire loro il corretto significato per non cadere in pregiudizi o luoghi comuni fuorvianti. Tutte hanno pari dignità e tutte devono essere tutelate e salvaguardate, quand’anche fossero parlate da una cerchia molto ristretta di persone.

La lingua piemontese è normalmente parlata da un milione e mezzo di persone e compresa da almeno un altro milione e mezzo di piemontesi. Senza contare le comunità piemontesi sparse nel mondo, che ancora parlano correntemente la lingua dei loro antenati emigrati in anni lontani, soprattutto in Argentina (nella Pampa Gringa, nella provincia di Cordoba: Gringa sta per “straniera”, in quanto terra “ripopolata” prevalentemente dai Piemontesi, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento). Qui il piemontese è ancora parlato e compreso da almeno circa 500.000 persone. Così come è parlato da migliaia di discendenti di Piemontesi emigrati in Australia, Canada, Nord America, Francia e in altri paesi europei.

Come la maggior parte delle parlate regionali, il piemontese è stato fortemente penalizzato a partire dall’Unità d’Italia in poi, da Cavour ai giorni nostri. E ciò nell’intento utopico di creare una cultura e una lingua nazionale al di sopra delle diversificate realtà culturali e idiomatiche locali, considerate volgari e vassalle di quella che doveva essere la cultura e la lingua ufficiale, aggregante e dominante. Visione strabica e opaca, che non considera che le diverse realtà culturali e linguistiche territoriali non sono affatto un limite alla formazione di un solido e coeso comune senso di appartenenza ad una nazione, ma piuttosto un arricchimento e un valore aggiunto per tutta la comunità.

Non promuovere, emarginare o addirittura soffocare le culture e le parlate locali, derubricandone la portata e il valore, non solo non è lungimirante, ma è gravemente penalizzante, e crea un impoverimento culturale per tutto il Paese.

Le parlate locali e regionali, lingue, vernacoli o dialetti che siano, rappresentano le tessere preziose di un unico artistico mosaico nazionale. Staccarle, o lasciarle cadere significa sfregiare un patrimonio culturale comune. E allora, difendiamole, promuoviamole e non facciamole morire. Sono il legame con il nostro passato: sono le radici che affondano nella storia di ieri; sono il DNA della nostra identità culturale.

Sergio Donna

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