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Freisa, il parente meno noto del Nebbiolo che vanta cinquecento anni di storia

Risale al 1517 la prima menzione scritta del Freisa, in un tariffario doganale del comune di Pancalieri, nella pianura a sud di Torino. Nel documento si legge “carrate et somate Fresearum”, segnalandola come uva di pregio, pagata il doppio di una varietà comune.

Cinquecento anni sono trascorsi da quella testimonianza documentale e il Freisa, coltivato quasi esclusivamente in Piemonte, con presenze in Argentina e California, dove venne introdotto da coloni piemontesi, si mantiene vivo e vitale, con cinque Doc – Freisa d’Asti, Freisa di Chieri, Langhe Freisa, Monferrato Freisa, Colli Tortonesi Freisa – che in tempi recenti hanno finalmente hanno deciso di unire le forze per una promozione congiunta.

La nobiltà del Freisa trova conferma nelle ricerche di Anna Schneider e Vincenzo Gerbi che, da analisi genetiche, hanno scoperto una parentela di primo grado con il Nebbiolo, tanto da far ipotizzare che il Freisa derivi da un incrocio spontaneo del Nebbiolo con un altro “genitore” scomparso o ancora ignoto. Una relazione nobilitante, che conferisce prestigio a un vitigno che negli anni ha patito una certa svalutazione rispetto ad altri vini rossi considerati superiori. Indizi di questo legame si riscontravano già nei sinonimi con cui la Freisa era nota, Spannina e Spanna Monferrina, nomi usati nel nord-est del Piemonte per designare proprio il Nebbiolo. L’uva era anche detta Monferrina o Monfrà, evidente richiamo al territorio d’origine del Freisa, che ha la propria culla sulle colline tra Asti e Chieri.

C’è da rilevare nei testi ampelografici dei secoli scorsi una certa discordanza di valutazioni sul vino Freisa, da alcuni giudicato “di lusso”, austero e longevo (Strucchi, 1895), non inferiore ai migliori rossi piemontesi, da altri addirittura “sgradevole, se non nocivo” (Gatta, 1835): una divergenza che può stupire, ma che si spiega considerando i tratti di rusticità del vitigno, resistente alle malattie e molto produttivo, caratteri apprezzati dai contadini che ne hanno favorito la diffusione anche in aree difficili, in cui le uve non maturavano al meglio.

Il Freisa poi, oltre alla maturazione medio-tardiva, presenta alti tannini e spiccata acidità: questa seconda caratteristica, oggi gestita con la conversione malolattica, che trasforma l’acido malico nel più morbido acido lattico, poteva dare vini aspri e disarmonici.  Inoltre la ricchezza in colore e polifenoli, che assicura al vino struttura e longevità, ha fatto sì che in passato si adoperasse il Freisa per migliorare vini in cui questi caratteri difettavano, condannandolo a un ruolo secondario. Da queste premesse discende il convincimento ancora radicato che dal Freisa non possano derivare grandi vini, corposi e longevi, ma solo vini “leggeri e vivaci”.

La cantine Balbiano ad Andezeno

La comparsa delle malattie crittogamiche determinò invece, specie con la ricostituzione post-fillossera dei vigneti, una preferenza per quest’uva, apprezzata per la resistenza e l’adattabilità, decretandone così una certa espansione. La sfida odierna dei produttori, supportati dal Consorzio del Freisa di Chieri e dal Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato, è volta a ribaltare l’immagine del Freisa, sfruttando le grandi potenzialità del vitigno. E’ il caso di Cascina Gilli, attiva nell’area di Castelnuovo don Bosco, dove si ha la maggior concentrazione del Freisa d’Asti, artefice del progetto Arvelè, volto alla creazione di un Freisa di grande corpo, che evolve in barriques per almeno 8 mesi. Tra i vini di Cascina Gilli citiamo anche la Bonarda Sernù, ricavata da uve Bonarda vinificate in purezza, varietà su cui l’azienda ha molto investito: coltivata solo in Piemonte, la Bonarda è spesso confusa con altri vitigni che, pur portando lo stesso nome, presentano caratteri del tutto distinti, come la Croatina dell’Oltrepò Pavese, in loco chiamata tradizionalmente Bonarda.

Un’altra azienda che ha contribuito in modo significativo al rilancio del Freisa è Balbiano, con sede a Andezeno, nell’area del Freisa di Chieri, coltivato in dodici comuni sul versante sudest della collina torinese. Fondata nel 1941 da Melchiorre Balbiano, l’azienda è oggi gestita dal figlio, Francesco, e dal nipote, Luca. Nel 2010 ha compiuto un’operazione lungimirante, prendendo in gestione a Torino il “grande appezzamento di vigneto popolato da piante fruttifere” che si trova all’interno della residenza sabauda nota come Villa della Regina, raro esempio di vigneto urbano oggi gemellato con il Clos Montmartre parigino, da cui si ricava il Freisa di Chieri Doc Superiore “Vigna Villa della Regina”.

Villa della Regina e, sulla destra, il suo vigneto

La rinascita del vigneto di Villa della Regina ha consentito alla capitale sabauda di riappropriarsi di un’antica tradizione, legata alla pratica della viticoltura sulle colline a ridosso della città, un tempo note come la Montagna di Torino, meta di villeggiatura da maggio a settembre per le famiglie agiate che d’estate amavano rifugiarsi nella frescura delle dimore collinari. Invalse presto l’abitudine presso i Torinesi di indicare tali residenze, composte da abitazione dei contadini, stalla, villa padronale e terreni coltivati, con il termine tuttora in uso di “vigne”, designando il complesso nella sua interezza con il nome d’una sua parte, minoritaria come estensione, ma essenziale per l’economia della piccola cellula produttiva.

La Villa della Regina, appartenente al circuito di residenze sabaude che fa da corona alla città, venne realizzata nella prima metà del Seicento come residenza di Lodovica, figlia di Cristina di Francia e consorte del principe Maurizio di Savoia, che affidò il progetto, ispirato ai modelli delle ville romane, all’orvietano Ascanio Vitozzi. Il complesso, battezzato “villa Lodovica” in omaggio alla giovane sposa e solo in seguito denominato Villa della Regina, quando divenne dimora prediletta di Anna d’Orlèans, moglie di re Vittorio Amedeo II, appare inserito all’interno di un cannocchiale prospettico che, collegandolo visivamente a piazza Castello, cuore del potere sabaudo, segue la direttrice di via Po, lievemente inclinata rispetto allo schema ortogonale del reticolo viario torinese, e giunge sino alle pendici della collina, attraversando la villa e concludendosi nell’anfiteatro verde retrostante, dominato dal Belvedere.

L’ampia rosa di tipologie in cui è oggi disponibile il vino Freisa, secco, dolce, frizzante, superiore, spumante, non è più considerata un handicap, bensì un valore aggiunto. La tipologia vivace, tradizionalmente associata al Freisa, è segnata da una lieve effervescenza: l’anidride carbonica contenuta esalta il profumo di lampone, caratteristica varietale. Ancora viva è la tradizione del chiaretto, ottenuto proseguendo la vinificazione in bianco dopo la svinatura precoce. Le tipologie secco e superiore disegnano invece vini strutturati, degni di accompagnare i piatti sontuosi della cucina piemontese, a base di carni rosse.

La gestione di un vitigno come il Freisa esige attenzione: occorre che il grappolo raggiunga la piena maturazione, anche per abbassare l’acidità. Per ottenere vini meno aggressivi si ricorre poi a pratiche come il rigoverno, che impone di proseguire la fermentazione dopo la svinatura con l’aggiunta di uve “surmature”, cioè lasciate appassire sulla pianta o su graticci, in maniera tale da attivare in modo più rapido la conversione malolattica.

 

 

 

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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