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Bartolomeo Vanzetti, il sogno di un emigrato cuneese trasformatosi in tragico errore giudiziario

ASTI. Domenica 16 alle ore 21 andrà in scena “Vanzetti. Il sogno di un emigrato italiano” al Teatro Alfieri di Asti, uno spettacolo storico di Luciano Nattino, drammaturgo, regista, attore, ricercatore di tradizioni popolari e sperimentatore, scomparso nel 2017. All’interno della stagione 2018/2019 il Teatro degli Acerbi porta in scena la rappresnetazione nel ventennale della compagnia, per ricordare il maestro Nattino, con un cast originale molto affiatato. Lo spettacolo verrà replichato la mattina seguente nel cartellone del Teatro Scuola Comune di Asti per gli studenti degli istituti superiori.

La storia narra di Bartolomeo Vanzetti e dell’amico Nicola Sacco, negli Anni Venti in America, che furono processati, a causa delle loro idee anarchiche e in quanto immigrati, e infine condannati alla sedia elettrica dopo sette anni di ricorsi e rinvii. Attraverso documenti del Fondo Vanzetti di Cuneo Nattino ha raccontato questa vicenda dolorosa a modo suo. Affermava: «Quel che sono venuto ad interrogare qui, con questo lavoro su Vanzetti, più che l’utopia, ancorché cara, del piemontese terrigno e volante, è l’erranza, la diaspora, la dispersione come fenomeno costante di questo mondo. Storie di emigrazione, di libertà offuscate, di diritti negati. Se Sacco e Vanzetti, bruciati sulla sedia elettrica nel 1927, hanno una importanza per noi, è perché siamo sempre capaci di ucciderli o di farli vivere».

Il piemontese Bartolomeo Vanzetti, nato a Villafalletto, in provincia di Cuneo, emigrò, come  il pugliese Nicola Sacco, negli Stati Uniti nel 1908, vivendo e lavorando nel Massachusetts come pescivendolo. Aveva idee socialiste di stampo anarchico, ma pacifista, caratteristica che non fu tenuta in considerazione quando nel 1920 fu accusato, insieme con Sacco, di essere autore di una rapina a una fabbrica di calzature in cui morirono un cassiere e una guardia armata.

L’America, a quel tempo, era immersa in un clima di ostilità verso gli stranieri, e a nulla valsero le dichiarazioni d’innocenza da parte dei due italiani anche se nel 1925 un pregiudicato si autoaccusò di aver partecipato alla rapina con altri complici. Vanzetti, chiamato dagli amici “Tumlin”, dopo aver girovagato a lungo negli Stati Uniti dichiarerà:  «Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America. Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era per me come la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me».

Nel 1927, allorché si rivolse un’ultima volta al giudice Thayer, Vanzetti disse: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un italiano, e davvero io sono un italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Quando il verdetto di morte fu reso pubblico, si tenne una manifestazione di dieci giorni davanti al palazzo del governo, a Boston, con un corteo di persone che attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown; perfino Benito Mussolini, un mese prima dell’esecuzione, scrisse all’ambasciatore statunitense a Roma per intervenire presso il Governatore del Massachusetts al fine di salvare i due connazionali, che però morirono sulla sedia elettrica.

 

 

 

Redazione

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