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Amarcord torinesi: il mito di Maurizio Marletta, conosciuto come il Maciste di Porta Palazzo

TORINO. Il suo nome era Maurizio, detto Maciste, e per tutti gli Anni Sessanta e i primi Anni Settanta del Novecento era considerato il vero “re di Porta Palazzo”. Era di Catania, precisamente del Rione San Cristoforo, uno dei più vivaci, ma anche più malfamati borghi popolari della città siciliana. In realtà, il vero nome di Maciste non era neppure Maurizio (poiché sul suo atto di nascita compariva quello di Gioacchino Marletta). E “trassava” persino sulla data di nascita, affermando di essere nato nel 1940. Non era vero: in realtà Maciste era stato generato ben cinque anni prima, nel 1935. Ma tant’è. Per mettere al mondo un gigante simile, sua madre doveva aver faticato non poco, e chissà cosa aveva pensato quando la prima volta provò a sollevarlo e stringerselo tra le braccia. Era davvero di dimensioni ciclopiche. Scelse di venire a Torino, come tanti altri italiani del Sud, in cerca di un lavoro e di buona fortuna. Provò a farsi assumere come garzone da un venditore ambulante di frutta e verdura del Balon, magnetico luogo di fascino, col suo entourage malandrino e multiculturale: un punto di ritrovo obbligato per decine di meridionali in cerca di fortuna. Ma Maurizio non era tagliato per stare alle dipendenze di qualcuno. Lui voleva essere il padrone di se stesso. Provò a mettere su un banchetto di cianfrusaglie e di giocattoli. Ma neppure il commercio era la sua vocazione. Sapeva che i suoi muscoli erano qualcosa di fenomenale: non avrebbe avuto senso sciupare tutta quella forza per incartare dei piccoli giochi di plastica. Aveva in corpo una frenesia, un impeto tale che lo spronava a mettere in mostra tutta la sua straordinaria prestanza e potenza fisica.

Certo, gli mancavano gli abiti di scena: ma Maciste non pensava di aver bisogno di  paillettes o di corpetti lucidi. Quelli erano indumenti da circo equestre. Lui amava la libertà, l’aria aperta, gli spazi immensi. Cosa poteva esserci di meglio che la Piazza Emanuele Filiberto, Porta Palazzo, di domenica mattina? Quello era un vasto palcoscenico libero, alla portata di tutti. E così, sandali ai piedi, pantaloncini corti e canottiera, da cui sporgevano i suoi bicipiti villosi e forzuti, Maurizio detto Maciste iniziò la sua carriera di sollevatore di pietre. A Torino, quel tipo particolare di pietra certo non mancava: lui sollevava le “lose”, i caratteristici parallelepipedi di pietra nostrana, estratti dalle Alpi Cozie piemontesi (spessi circa venti centimetri, e che misurano più o meno quaranta centimetri di lunghezza per venti-venticinque di larghezza) usati per la pavimentazione di molte strade torinesi.

E Maciste, dopo aver fissato a lungo la pesante pietra, concentrandosi come in preghiera per prepararsi all’impresa immane, prima chinato su se stesso e poi piegato sulle ginocchia, l’afferrava e la sollevava con due mani; poi la posava per qualche attimo sul petto, e infine, ripreso fiato, con un ultimo, solenne, sforzo che trapelava dalle smorfie del suo viso, alzava trionfante le braccia al cielo, mostrando il suo trofeo agli astanti. Poi, non pago, lasciava che il masso fosse retto da un solo braccio, e restava con quella onusta pietra posata sul palmo di una sola mano, mostrandola in tondo ai presenti, con il garbo e la grazia con cui un cameriere porta ai clienti di una piòla un quartino di vino ed un bicchiere vuoto. E a quel punto scrosciava l’applauso. E lui allungava il berretto per raccogliere dal pubblico le monete, giusto compenso per la sua spettacolare performance.

Un personaggio come Maciste, con quel suo volto barbuto, e gli occhi neri e pungenti, consoni più ad un Mangiafuoco collodiano che ad un lottatore olimpico, non poteva non attirare l’attenzione di maestri del cinema dell’epoca. Maciste era un tipico personaggio felliniano, pasoliniano. Una caricatura vivente dell’ultimo esponente romantico di uno stile di vita che solo gli autentici “portapalatini” del Novecento conoscevano veramente. Non a caso Giacomo Ferrante girò su di lui un corto presentato al X Film Festival del 1992, dal titolo L’uomo della pietra. Ma si sono accorti di lui anche cineasti come Pasolini, Scola, Squitieri.

Poi, lentamente, il mondo è cambiato, e anche l’ultimo personaggio fiabesco tipico di uno stile di vita che non c’è più, ormai troppo fuori luogo, si è ritirato dalle scene. Qualcuno l’ha ancora visto girare per il Balon; qualcuno sostiene che per un po’ aveva ripreso a vendere bambole usate e giochini di legno d’antan. Ma erano troppo leggeri per la sua anima e per le sue braccia forzute. E così è scomparso per sempre. Dove sia andato, nessuno lo sa.

Ma nelle domeniche d’estate, quando Piazza Emanuele Filiberto appare deserta, sul lastricato di lose ancora bagnato dalle macchine pulitrici dell’Amiat, lì davanti al Mercato del pesce, ancora echeggia la sua voce roca, dal forte accento siculo: «Ma che hai da ridere, tu? Perché non provi ad alzare questa pietra? Alzala, se ne sei capace: anche solo di due centimetri! Altrimenti, sei un cornuto. Perché gli uomini veri ce la fanno, i cornuti come te sono solo capaci di ridere!».

Chi volesse approfondire la storia del Maciste di Porta Palazzo può consultare il libro di Andrea Biscàro il Maciste di Porta Pila – Storie di immigrati e del re Maurizio (Neos Edizioni, 2013, euro 12,50).

 

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