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Leggende di banditi piemontesi: Pietro Luigi Mottino, detto il Bersagliere (1827-1854)

Il Piemonte, così come gran parte delle regioni italiane ha avuto, nel corso dei secoli, la sua dose di briganti più o meno famosi. Di alcuni di loro, nel folclore locale, sopravvive ancora qualche ricordo, con le inevitabili esagerazioni dovute ai ricordi tramandati a livello popolare. Tra questi vi è sicuramente Pietro Luigi Mottino, detto “Motin” o, anche il “Bersagliere”, che operò nella seconda metà dell’Ottocento in Canavese. Nato il 9 maggio 1827 a Candia, proprio sulle sponde dell’omonimo lago oggi diventato con l’area circostante un parco naturale, Mottino viene chiamato alle armi nel 1848 e arruolato nei bersaglieri proprio mentre si sta combattendo la Prima Guerra di Indipendenza. Il giovane canavesano è costretto così a partecipare partecipare alle ultime fasi della campagna.

Dopo qualche mese Mottino s’accorge che la divisa gli va stretta, tant’è che nel giugno del 1849 decide di disertare: nel corso del processo che lo vide sul banco degli imputati, qualche anno dopo, fornirà due versioni molto diverse dell’accaduto: la prima legata a delle punizioni subite dai superiori in seguito al saccheggio di negozi e abitazioni durante la repressione di Genova, la seconda di essere entrato in contrasto con il suo capitano a causa di una donna. Qualunque sia la verità, una volta disertato Mottino prende il comando di un gruppo di rapinatori che opera nel basso Canavese: dopo alcuni furti non particolarmente significativi, la banda prende di mira la cascina Gardina di Bianzé, nel Vercellese: il colpo frutta un bottino notevole, ma un contadino perde la vita nel rogo dei fienili. La reazione delle forze dell’ordine non si fa attendere. I carabinieri di Chivasso, comandati dal luogotenente Arnulfi, si mettono alla caccia dei banditi e in breve tempo li arrestano quasi tutti. Unico a scampare alle manette è Mottino che continua ad operare nella zona compresa fra Canavese, Vercellese e Monferrato, trovando sovente l’appoggio della popolazione.

Mottino si nasconde in fattorie ed in osterie compiacenti, a Cavagnolo, a Cereseto, alla Cerrina, ma soprattutto a Borgo Revel di Verolengo. Amoreggia con figlie e mogli di quelli che lo nascondono, dando prova di galanteria da gentiluomo. Uno di questi osti, ingelosito, avverte i carabinieri, ma il giovane riesce a sfuggire all’arresto. I suoi modi garbati sono ben diversi dal classico bandito da strada. Le cronache dell’epoca mettono in risalto la sua generosità. Il giovane si dimostra sempre magnanimo e pronto ad offrire da bere e mangiare alle persone con le quali si intrattiene. Evita il più possibile le violenze gratuite e che si tratti di un assalto a una vettura postale o l’incursione nel cascinale di un possidente si rivolge sempre in modo cortese. Pare che, addirittura, in alcuni casi abbia restituisca ai derubati ciò di cui si è impossessato. Dalle cronache dell’epoca si apprende di episodi curiosi, come quello di un vecchio sensale afferma che “farsi rapinare da una persona dai modi così cortesi è quasi un piacere”. La popolarità del giovane bandito è confermata dal fatto che il primo giugno del medesimo anno sul periodico Vibio Crispo è pubblicato un articolo, a firma di Cristoforo Baggiolini, intitolato “Mottino detto il Bersagliere”, nel quale il personaggio è rappresentato con simpatia e una certa ammirazione.

Il 7 aprile 1852 Mottino viene arrestato una prima volta e condotto in carcere, prima a Vercelli e poi a Torino. Con i suoi modi gentili riesce a corrompere uno dei suoi carcerieri e riesce dopo qualche mese riacquista la libertà e riprende la sua attività: ferma due vetture postali, impadronendosi dei valori che trasportavano. Quelli delle “benemerita” sono però sulle sue tracce e il 7 maggio 1853 viene nuovamente arrestato. Il processo si svolge nell’estate del 1854 e Mottino si conferma, anche in questa occasione, personaggio di notevole fascino personale, riuscendo, con i suoi modi cortesi ad attirarsi le simpatie del pubblico, soprattutto femminile. Collabora con i magistrati e racconta delle sue imprese, negando però di avere mai ucciso qualcuno. Gli stessi carabinieri, cavallerescamente, ammettono che è sempre sfuggito grazie alla sua agilità e abilità, senza mai attentare alle loro vite. Ma i giudici applicano rigidamente la legge: i capi di imputazione per grassazione sono oltre 50 e lo condannano a morte.

Il re Vittorio Emanuele II gli rifiuta la grazia, ma la leggenda narralo vuole impavido fino all’ultimo: chiede ed ottiene di poter fare un giro attorno alla forca, dicendo sorridendo al boia: “E adesso facciamo due salti all’inglese”. E’ il 12 dicembre del 1854. Mottino ha ventisette anni. Conclude sul patibolo la sua vita breve ma intensa e certo non comune, tant’è che la sua leggenda rimarrà viva (e non solo in Canavese) per diversi decenni. Antonio Baratta, celebre epigrammista torinese, gli dedica questi versi come epitaffio per la sua tomba: “Sepolto giace in questa fossa oscura / Il celebre Mottin, che fu impiccato / Perché tentò di fare in miniatura / Ciò che in grande di far soltanto è dato. / Dalla sua fin, da così mesto loco / Piglino esempio quei che ruban poco”. E, ancora nel 1912, Luigi Nicolis di Robilant, autore di una biografia di don Luigi Cafasso, scriveva: “Per l’arditezza delle imprese, per una certa cavalleria nel compiere i delitti ed il lungo filo da torcere ch’ei diede alla polizia, il nome di Mottino, soprannominato il Bersagliere di Candia, è rimasto leggendario e quasi ammirato nelle nostre campagne”.

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