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“It l’has mach la frev mangiòira” e altre locuzioni legate all’infanzia

Ai miei tempi, le mamme valutavano con tre espressioni diverse il decorso di una malattia dell’infanzia. Ognuna di esse indicava stadi differenti e più o meno avanzati livelli di guarigione.

Il primo stadio, successivo alla fase acuta, era quello in cui − dopo un prolungato e pervicace rifiuto del cibo, per la persistenza della nausea e della febbre elevata − il piccolo convalescente allettato ricominciava a sentire i primi stimoli dell’appetito (non era ancora vera fame, però). Con celata soddisfazione, mimetizzata da un’espressione ironica, e tirando di nascosto un sospiro di sollievo, le mamme commentavano questo momento del decubito con l’espressione: “It l’has mach la frev mangiòira!” (Tu hai soltanto la febbre dell’appetito). Non era un richiamo, né una critica velata. Era una semplice constatazione. O meglio: era una presa d’atto della migliorata situazione clinica, e al tempo stesso una forma di ringraziamento alla Provvidenza divina. La febbre persisteva, sì, ma era bassa ormai. E il traguardo della guarigione completa era ormai a due passi, e si manifestava con la reiterata richiesta di cibo da parte del rigenerato paziente.

Il miglioramento continuava, e lo si percepiva dalla cera del convalescente, sempre più colorita, dagli occhi sempre meno annacquati, e – appunto −  dal crescente appetito che si faceva più gagliardo di pasto in pasto, mentre la febbre pian piano svaniva, posizionandosi stabilmente ben al di sotto dei 37°. Era lo stadio intermedio, quello in cui le madri cominciavano a guardare con sospetto il loro figliolo che si ostinava ad oziare nel letto, per pura pigrizia, ormai. E la frase di rito era la seguente: “Àuste dal let, e preparte a torné a scòla, ch’it ses mach un malavi al bur”. Un malato al burro: cioè un malato per modo di dire, un malato per millantato credito.

Così, la mattina successiva, alle sette del mattino, smaltito ogni strascico dell’influenza o del malanno patito, per lo scolaro scattava la sentenza finale, dopo il rituale della mano materna posata sulla fronte del recalcitrante paziente.

Era la terza ed ultima fase, quella senza più appello: “It ses fresch come na reusa!” – sentenziava la mamma. “Sei fresco come una rosa!”. A quel punto, non c’era più scampo. Ufficialmente guariti senza riserve, bisognava scattare in piedi e prepararsi su due piedi a correre a scuola.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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