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Tancredi Pasero, il cantante lirico torinese che si esibì al Metropolitan e alla Scala

TORINO. È stato il maestro Bruno Baudissone, musicista, giornalista e critico musicale torinese, a farmi conoscere e a parlarmi di Tancredi Pasero (Torino, 1893 – Milano 1983), una delle figure di maggior spicco della storia della lirica internazionale. Un artista piemontese del bel canto che ha calcato i palcoscenici di mezzo mondo. È sempre un piacere ascoltare Baudissone, dotato di un’eccellente dialettica ed abile affabulatore. Ma è soprattutto la sua vasta cultura in campo musicale, e della lirica in particolare – che ne fa un esperto in questo settore – a renderne magnetico l’ascolto; e poi da lui c’è sempre qualcosa di nuovo e di curioso da scoprire.

Questo, più o meno, è il racconto che mi ha fatto di Tancredi Pasero, ricordando il giorno in cui, in veste di intervistatore di questo famoso cantante lirico piemontese, fu ricevuto a casa sua, qualche anno prima della scomparsa dell’artista: «La cameriera mi fece accomodare familiarmente in cucina, perché Tancredi Pasero – che aveva compiuto da poco ottantasette anni – non aveva più le gambe sicure e preferiva rimanere al suo posto abituale, di fianco all’adorata moglie Libusé, sofferente da sei anni in seguito a una trombosi. “Le chiedo scusa – mi disse il vecchio cantante – se non sono venuto ad accoglierla meglio, ma le mie gambe si sono fermate e il sangue non circola più come prima. Lei è di Roma?” Risposi che ero di Torino. “Ah, s’a l’é turinèis, alora ’s capioma mej” (Ah, se è torinese, allora ci capiamo meglio, ndr) – mi rispose. 

Poi gli chiesi se si ricordava degli anni della sua infanzia a Torino. “Perdinci, se mi ricordo! Quando ero bambino, ero solista nella Chiesa di San Tommaso, in via Pietro Micca, e insegnavo agli altri bambini a cantare la Messa. Allora il parroco, visto che avevo una bella voce, ha mandato a chiamare mia madre e le ha detto: – Perché non fa studiare musica a questo ragazzo? Mia madre mi ha affittato un pianoforte e così ho studiato due anni col maestro Crespi”.

Il maestro Bruno Baudissone

Mi disse che per alcuni mesi aveva avuto come maestro di canto Arturo Pessina, un grande baritono torinese. Ma che poi dovette partire per il fronte nella Grande Guerra ed interrompere la pratica del canto.  “Quando tornai dalla Guerra – continuò – frequentavo la famosa ‘tampa lirica’ di via Mazzini dove tutte le sere noi dilettanti ci esibivamo, accompagnati da un pianista. Io cantavo sempre per ultimo perché – così almeno dicevano i miei amici – ero quello che cantava meglio. Una sera il cameriere mi disse che due signori avevano bisogno di parlarmi. Sono andato a sentire cosa volevano e così, a bruciapelo, mi chiesero: – Lei se la sentirebbe di cantare domani sera nell’ ”Aida”? Cantare l’Aida! Io non avevo la più pallida idea di quest’Aida. Comunque ho risposto: -– In ogni caso, se c’è da cantare, io canto. Ho capito poi dopo che uno di quei due tizi era il proprietario del Teatro Chiarella (N.d.R.: aveva sede a Torino in Via Principe Tommaso 6, e venne distrutto da un bombardamento il 20 Novembre del 1942). L’altro era il maestro Del Cupolo.”

Gli chiesi come andò la serata, e Pasero mi rispose così: “Bene, talmente bene che dopo qualche recita mi offrirono la parte principale di “Ramfis”, in quanto il basso Vincenzo Bettoni si era ammalato. Nella parte di Ramfis c’era un maledetto Fa naturale alle parole “folgore, morte” e io il Fa non l’avevo. Sono andato a casa e ho provato: folgore mi… folgore me… folgore ma… folgore mo…, finché ho trovato l’impostazione giusta e ho conquistato la nota”.

Poi mi disse che in seguito cantò a Milano, a Vicenza e a Trieste, città molto legata alla musica di Wagner, dove ottenne un ruolo come basso per “Il crepuscolo degli dei”, e che poi venne scritturato al Teatro Costanzi di Roma, sempre per “Il crepuscolo”.

Gli domandai se cantasse Wagner in italiano. Mi rispose: “Eh, certo. Allora si cantava tutto in italiano. Io, d’altra parte, non conoscevo altre lingue; solo una volta ho cantato in francese, ma non mi sono trovato bene. Cosa vuole, io ho fatto soltanto la quinta elementare alla Scuola Pacchiotti di Torino, e non avevo la preparazione per cantare in francese o in tedesco. A Roma ho cantato qualche altra opera, poi l’impresario Walter Mocchi mi sentì e mi propose di andare in America, con un contratto di tre anni. A me sembrava di toccare il cielo con un dito e accettai. Così mi fermai non tre, ma nove anni nell’America del Sud. Poi sono passato al Metropolitan di New York”».

Baudissone continua a parlarmi di Pasero con dovizia di particolari, come se l’intervista al cantante fosse stata tenuta il giorno prima. Io lo seguo con attenzione, e mi pare che non sia lui a parlarmi, ma che a farlo sia lo stesso artista da lui intervistato tanti anni fa. Poi riprende il racconto: «Gli chiesi come mai, dopo i trionfi al Metropolitan, decise di tornare in Italia. E Pasero così mi rispose: “Erano gli anni della grande crisi e io, a un certo punto, ho fatto le valigie. Altri cantanti si sono fermati laggiù, ma vivevano chiedendo soldi nei parchi di New York. Io ho preferito tornare in Italia: ho anche pagato la penale, perché il contratto non era finito, piuttosto di mettermi a chiedere la carità come gli straccioni. A Milano, fui scritturato alla Scala, dove ho cantato per ventisette stagioni, con tutti gli artisti più grandi, da Pertile a Merli, dalla Toti Dal Monte alla Capsir, da Tagliabue alla Stignani, alla Caniglia, a Gigli… Insomma, ho avuto la fortuna di avere come compagni di scena tutti i grandi artisti che hanno cantato alla Scala in quegli anni”.

In chiusura della mia intervista, chiesi a Pasero come furono i suoi rapporti con Toscanini. Mi disse:  «Piuttosto cattivi. Non andavo d’accordo, sia per il carattere, sia per ragioni musicali. Io ho debuttato con Toscanini nel “Don Carlos” e a suo dire, io non cantavo, anzi “non dicevo”, una sola frase come voleva lui. Allora ha chiuso malamente il pianoforte e se n’è andato. Ma io l’ho richiamato: “Maestro Toscanini – gli ho detto – sono tre anni che ho il contratto in tasca, ma non sono mai venuto proprio perché c’era lei che dirigeva. Io non voglio farmi del sangue cattivo: lavoro fin che voglio in altri teatri e guadagno fior di quattrini.  Comunque, bene o male, siamo poi andati in scena lo stesso, e con successo. Toscanini si credeva un padreterno, ma, in fondo, cosa faceva? Dirigeva ciò che avevano scritto altri, era un interprete come noi cantanti. I critici invece non hanno fatto altro che osannarlo”.

Per finire, gli chiesi se era vero che la sua carriera alla Scala si fosse conclusa in modo piuttosto burrascoso. Lui mi disse: “Ho deciso di chiudere nel ’51 per una questione di principio. In una settimana ho fatto varie recite di “Oberto, conte di San Bonifacio” e, in aggiunta, le prove del “Don Pasquale”, opera che non avevo mai cantato. Io avevo chiesto cinque o sei giorni di riposo, ma non li ho ottenuti. Così mi sono impuntato, e ho chiesto di cantare pianissimo alle prove. Niente da fare: dovevo cantare forte. Allora mi sono rimesso la giacca e, davanti a tutti (coristi, macchinisti e orchestra), ho detto: “Pasero è l’ultima volta che canta alla Scala. Siccome io ho la testa dura, da bon turinèis, non ho mai più cantato in quel teatro”».

Grazie davvero al maestro Bruno Baudissone per averci ricordato nel racconto della sua intervista Tancredi Pasero: aveva davvero un bel caratterino questo cantante lirico piemontese, testardo e caparbio, che non si peritava di dire la sua a chi lo prendeva un po’ troppo di petto o lo trattava con supponenza.  Ma anche un grande artista, un “basso” entrato nella leggenda della musica: una grande voce torinese la cui eco ha risuonato in tutti i continenti, di cui non solo i piemontesi devono essere orgogliosi. E pazienza se era un po’ fatto alla sua maniera.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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