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Quando gli abitanti di Settimo Torinese divennero “cuciarin dopi”…

Si tratta di una curiosa espressione torinese in auge fino ai primi Anni Sessanta, oggi pressoché dimenticata. Sulla sua genesi esistono almeno due scuole di pensiero

I torinesi di oggi ne hanno perduta la traccia. Ma chi è nato tra gli Anni Cinquanta e i primi Anni Sessanta forse ricorderà una strana espressione tipicamente locale. Per chi non la conoscesse affatto o per chi, pur non giungendogli nuova, se ne fosse dimenticato, eccomi qui pronto a rispolverarla. Era con il bonario – per la verità anche un po’ malizioso (e vedremo perché) – appellativo di “cuciarin dopi”, cioè di cucchiaini doppi, che i Torinesi della prima metà del Novecento chiamavano gli abitanti di Settimo Torinese.

La Torre medievale, simbolo di Settimo Torinese

Sulla genesi di questa curiosissima espressione, esistono almeno due scuole di pensiero. Entrambe hanno in comune il contesto in cui si sarebbe generata: un lussuoso caffè di Torino. Possiamo identificarlo, tanto per fare un esempio, con uno dei numerosi eleganti locali del centro storico: il Caval ëd Bronz, o il Caffè Baratti, ad esempio, o il Caffè Fiorio, se preferite. Quale locale realmente fosse, non ci è dato di sapere, ma l’esempio è quanto mai adatto a rendere verosimile la ricostruzione della scena.

Orbene, in quel locale (sceglietelo voi), in un giorno non meglio definito d’inizio Novecento, entrarono due fratelli contadini, residenti a Settimo, che erano venuti in città per controfirmare il rogito di un atto notarile: un lascito inaspettato di un parente torinese passato a miglior vita. I due fratelli, due bonari ragazzi di campagna, dopo aver sottoscritto i vari “strument e papé” che la burocrazia imponeva in questi casi, appena usciti dallo studio del notaio, decisero di concedersi un caffè. Niente di più di un caffè, ma un caffè come si deve. E scelsero quell’aulico locale, proprio quello che voi avete immaginato. Non erano assolutamente avvezzi al lusso dei caffè torinesi, giacché, prima di allora, avevano frequentato solo un paio di piòle settimesi, dove tutti si conoscevano, e dove, senza il minimo “spatusso”, nelle giornate di festa, si ritrovavano in tanti a bere insieme un bicchiere, o a giocare a tressette e a cantare.

Ma qua a Torino, era tutta un’altra cosa: quei soffitti decorati, i banconi barocchi in noce massello, le pareti a stucco con su scritti i versi di Dante, i lampadari a gocce di cristallo di Boemia in stile Maria Teresa, e persino quelle ricche applique in bronzo dorato posizionate sulle lesene della boiserie, tutto sembrava creare un contesto da palazzo reale, in cui i due giovani si sentivano a disagio. Da rimanere scioccati. E scioccati, in effetti, i due fratelli lo erano davvero. Ma pur riuscirono a trovare la forza di avvicinarsi al bancone, dietro al quale un cameriere in gilet e candida camicia, su cui spiccava un farfallino nero di seta, sorrideva loro con un fare gentile, invitandoli con lo sguardo all’ordinazione.

“Due caffè”, fecero loro, dopo un attimo di esitazione, parlando all’unisono. “Subito, lor signori”, rispose sottovoce e con perfetto garbo torinese l’addetto al banco. In un attimo, due caffè fumanti furono loro serviti in altrettante candide tazzine di porcellana sottile, quasi trasparente, decorata con raffinati ramage in stile rococò. Ogni tazzina disponeva di un cucchiaino di vermeil. Gli occhi dei due fratelli sembravano dilatarsi dallo stupore per tanto bon ton, e per quel fare gentile dei camerieri che si spostavano da un tavolo all’altro tra l’intenso andirivieni di signorili avventori. Ma ciò che li paralizzò di stupore, annichilendoli, fu la zuccheriera enorme di ottone lucidissimo, posta tra le loro tazzine, colma di zucchero bianco, da cui spiccava il manico di un cucchiaino di vermeil. I due settimesi si guardarono negli occhi, incrociando tra loro uno sguardo di assoluta meraviglia. Uno dei due trovò il coraggio di tradurre in parole il senso di quello sguardo incantato: “Ma varda ti! Da nen cheurde: a Turin a servo ’l cafè con ël cuciarin dopi. Un për ël sùcher e l’àutr për ël cafè!!!”.

Del resto, si può capire: loro erano abituati ai gesti un po’ bruschi degli osti di Settimo, che senza tanti complimenti portavano il caffè agli avventori, facendo lo slalom tra i tavoli, con le tazze spesse e grezze appoggiate su un cabaret di latta tutto ammaccato, che alla base riproduceva il marchio della Martini & Rossi, e sopra c’era pure, sì, una zuccheriera di peltro, ma era minuscola, e al suo interno, frammisti allo zucchero, si intravedevano quasi sempre diffusi grumi marroni, intrisi di caffè: da quella piccola malconcia zuccheriera, i clienti attingevano il contenuto con un unico e solo cucchiaino, lo stesso con cui dovevano sorbire il caffè.

Certo è che quel cameriere aveva colto perfettamente, nella frase pronunciata da uno dei due contadini, quelle due parole fatali (“cuciarin dopi”) e a stento si era trattenuto da commenti e sorrisi maliziosi. Ma non appena quei due furono usciti dal locale, sbellicandosi dalle risate, ne aveva subito parlato ai colleghi. L’aneddoto non tardò a diffondersi tra i Torinesi, e il gioco fu fatto. Da quel giorno, i Settimesi erano diventati quelli dei “cuciarin dopi”.

C’è un’altra curiosa interpretazione di questa storia, ripresa dallo scrittore e storico torinese Milo Julini, da lui riportata qualche tempo fa sulla rivista on line Civico 20 News. Mutatis mutandis, tuttavia, la sostanza rimane la stessa: “Si narra – riferisce Julini – che una coppia di sposini in viaggio di nozze, provenienti da Settimo Torinese fosse giunta fino a Torino, e che qui, dopo essersi seduti in un elegante caffè del centro, i due avessero ordinato il caffè. Il caffè venne loro servito, unitamente ad una zuccheriera che conteneva zucchero in zollette, che dovevano essere prese con una elegante pinzetta. Lo sposo, che vedeva per la prima volta un aggeggio del genere, sorpreso, esclamò: ‘Parla pa! Sì a Turin a dòvro fin-a ij cuciarin dopi!’. Più ancora che di una forma di esibizionismo, o di un vezzo tutto torinese, pensò che si trattasse di un difetto di produzione, e che i ‘due cucchiaini’ non fossero stati separati. Qualcuno racconta persino che abbia spezzato la pinzetta per zollette, dicendo trionfalmente al cameriere che lui aveva provveduto a rimediare al difetto di fabbrica…”

Ma anche in questo caso, la frittata era stata fatta: e l’ingenuità di un giovane sposo di campagna venne colta al volo per creare un epiteto, bonario ma un po’ permaloso, che venne presto esteso a tutti i suoi compaesani settimesi. Non ce ne vogliano i cari amici di Settimo, a cui va tutta la nostra simpatia, ma questi aneddoti, risalenti ai primi anni del Novecento, oggi un po’ ci inteneriscono, e ci fanno rimpiangere quei tempi lontani, in cui bastava davvero poco per sorridere, sia pur con un pizzico di veniale malizia.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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