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Storie piemontesi: come nacquero i primi lazzaretti

TORINO. Dal punto di vista etimologico, lazzaretto deve il proprio nome all’isola di Santa Maria di Nazareth a Venezia, anticamente detta Nazarethum, per sovrapposizione col nome del personaggio evangelico Lazzaro, appestato per antonomasia, si mutò in “lazzaretto”. Tecnicamente, il lazzaretto era un tipo di ospedale destinato all’isolamento degli ammalati affetti da malattie contagiose e spesso incurabili. Il sinonimo moderno è “ospedale contumaciale”; il termine lazzaretto era usato anche per indicare il luogo destinato alla quarantena.

In Europa, la necessità di costruire i lazzaretti fu avvertita nel XV secolo: il primo esempio è costituto dal già citato caso dell’isola veneta di Santa Maria di Nazareth (1423), nella quale vennero ospitato quanti, provenienti dalla Terra Santa, soffrivano di malattie infettive. In genere, il lazzaretto era un luogo isolato, fuori dalla città, in cui l’accesso e l’uscita dei degenti era rigorosamente controllata. Strutturalmente si articolava intorno ad un edificio di culto, circondato da un gruppo di cortili nei quali erano presenti varie costruzioni: tutto il complesso era cinto da un muro invalicabile.

In età moderna, i lazzaretti sono scomparsi o integrati ad altre strutture anche se: le loro memorie sono ancora rintracciabili in alcuni toponimi: a Prestinone e in alcune località dell’Ossola, il lazzaretto era detto “la cà antè cu s’sént”. In Piemonte, soprattutto nelle fonti del XVI-XVII secolo, il lazzaretto viene genericamente indicato con “cabane”: capanna, baracca, o altro luogo di ricovero di fortuna (con questo termine si indicavano anche generiche sedi dedicate alla quarantena); abbiamo conferma in alcune fonti piemontesi del XVII secolo, in cui è indicato: “alle capanne o sii lazzaretto”; inoltre apprendiamo che nel 1630 la comunità di Cherasco costituì delle “cabane” tra la Stura e il Tanaro, ben lontane dalla città.

Le “cabane” o “gabane”, durante la peste del 1630, a Torino, erano in Levaldocho (Valdocco) e in Vialbre e Rivagagliarda (luoghi non identificati); alla cascina “Fossata” vi era un lazzaretto (situato tra le attuali vie Fossata, Randaccio e Ala di Stura): sembrerebbe evidente una differenza tra i siti; probabilmente di carattere strutturale, ma con identiche funzioni operative.

Sull’organizzazione del sistema dei lazzaretti di Torino, ci sorreggono alcune informazioni del Roffredo che riporta un inventario (datato 3 febbraio 1599) relativo ai materiali destinati ai ricoverati: “otto dozzine di materassi; 20 dozzine di coperte; 28 dozzine di pagliericci; 300 lenzuola; 35 vesti nuove; 800 e più assi di pioppo, una gran quantità di camicie più i paioli ed altri utensili di cucina”.

Conosciamo anche i “serventi” che operavano, nel mese di luglio 1599, nei lazzaretto delle “Maddalene”: “1 maestro di casa, 1 macellaio; 1 conduttore di cavalli; 1 conduttore del carro; 1 dispensiere; 1 scrivano; 2 portatori; 1 distillatore (o vinaio); 5 facchini; 3 formai; 1 servitore” e quello della “Fossata”: “1 maestro di casa; 1 venditore di carne di castrato, 1 macellaio; 1 conduttore di cavalli; 2 panettieri; 4 facchini per le spese; 4 acquaioli; 3 inservienti”. Le informazioni sulle modalità amministrative poste alla base dei lazzaretti non sono numerose e soprattutto non abbiamo modo di ricostruire l’organizzazione che governava queste strutture. Tra le fonti più antiche vi è un documento che ci consente di conoscere alcuni fatti risalenti al 1451-1452 e riguardanti Moncalieri: la comunità affittò una casa situata in un’area fuori città (Mairano) “pro reducendo personas contagiosas morbo pestis”.

Una trentina di anni dopo, vennero acquisite alcune casupole (domuncule) situate nei pressi del Po e dietro la conceria di Giacomino Carcaterra ed “aput cantonum tencha”, con la funzione di ospitare “infectos et suspectos de morbo et peste tempore pestilencie”.

A seguito dell’aumento dei contagiati, le domuncule si rivelarono insufficienti per far fronte all’epidemia: venne così utilizzata una più ampia costruzione ceduta dai fratelli “de Picadonis”: “domum cum suis sollo, curte et edifficiis scitam in Montecalerio in loco dicto ad cantonum  de Tencha”. Dalle direttive formulate dal Magistrato di Sanità di Moncalieri, apprendiamo che una “cabana” venne costruita “nel passaggio di Moncalieri verso il passaggio di Cauoretto et discorso da detto passggio doi o tre trabuchi”.

Frammentarie notizie sui lazzaretti costruiti utilizzando edifici già esistenti in aree extra-moenia, provengono anche da altri comuni. Ad esempio, nel 1452, a Chivasso, a quell’uso venne adibita “ecclesia Montisiovis” situata lontana dal centro abitato (Archivio Comunale di Chivasso, Ordinati, v. 24, 21 gennaio 1452). Pochi anni dopo (1458) a Biella, venne attrezzata a Lazzaretto un’intera contrada detta “contratom Gamberani”.

Va osservato che il lazzaretto non era la soluzione peggiore come spesso apprendiamo dalla storiografia del XIX secolo: infatti c’erano situazioni ben più drammatiche. Abbiamo notizia di malati chiusi nelle loro abitazioni, o peggio costretti ad uscire dalla città: in entrambi i casi, al rifiuto degli interessati corrispondevano azioni repressive anche pesanti. Per tale scopo erano istituiti degli appositi servizi di controllo. A Chieri, per esempio, ogni quartiere disponeva di un rappresentante incaricato di “recirchare infirmos” e quindi “ipsos espelli facero de Cherio” (Statuti civili del comune di Chieri, 1313), “Non dovrebbe perciò destare meraviglia il fatto che questi emarginati, abbandonati a se stessi, vagando poi affamati ed assetati per le campagne, procurassero danni, a volte anche ingenti, alle colture agricole”.

L’orrido di Foresto nei pressi di Bussoleno

Quasi certamente avvenne qualcosa del genere a Torino con la peste del 1484: l’anno successivo alcuni proprietari terrieri si rivolsero al consiglio comunale per ottenere un risarcimento per i danni arrecati: “in eorum pratis existentibus apud fonte per expulsos a civitate tempore pestis”.

“Per difetto dei lazzaretti o per la loro lontananza dai centri rurali, gli appestati dei paesi di campagna giacevano abbandonati nelle case o per le vie, o venivano portati nei boschi vicini dove si porgevano loro medicamenti e beveraggi in pentolini legati all’estremità di lunghe pertiche o ai collari dei cani”.

Comunque va osservato che, in alcuni casi, la sorte non era diversa neppure per gli ospiti dei lazzaretti: il 29 aprile 1631 il consiglio comunale di Alba deliberò di provvedere a fornire agli infetti: “grano, vino et dinari per sovenire i poveri che si ritrovano alle cabane per causa del contagio o sospetto di esso, acciò non periscano dalla fame et massime quelli che non hanno con che di potersi sostenere”.

In alcuni casi i lazzaretti furono realizzati sfruttando le caratteristiche geomorfologiche di aree attigue ma isolate dal centro abitato. Per esempio, in Valle di Susa, venne utilizzato l’orrido di Foresto che per la sua naturale conformazione ben si adattava alle necessità di isolamento richieste per far fronte al morbo.

Massimo Centini

Classe 1955, laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Ha lavorato a contratto con Università e Musei italiani e stranieri. Tra le attività più recenti: al Museo di Scienze Naturali di Bergamo; ha insegnato Antropologia Culturale all’Istituto di design di Bolzano. Docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino e al MUA (Movimento Universitario Altoatesino) di Bolzano. Numerosi i suoi libri pubblicati in italiano e in varie lingue.

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