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Sfumature piemontesi su ciochin, cioche, ciochëtte e ciochinere

La lingua piemontese è ricca di frasi fatte, spesso colorite, talmente spontanee e così integrate nella naturale parlata subalpina, che spesso chi le usa non si rende neanche conto di far ricorso a frasi idiomatiche la cui origine si perde nella notte dei tempi.

Uno di questi modi di dire è “costa a l’ha ij ciochin!”, letteralmente: questa ha i campanelli! Cioè: questa è bella davvero! Ne comprendiamo tutti il senso letterale e spesso sappiamo individuare il momento topico, la circostanza ideale, in cui la frase calza a pennello. Ciò capita, ad esempio, quando qualcuno ci racconta qualcosa di strano, oppure quando ci si trova in seria difficoltà perché non riusciamo a trovare una soluzione concreta a un problema che si presenta particolarmente complicato.

Parlavamo prima della spontaneità del linguaggio: quando si usa un modo di dire, non è che se ne debba conoscere necessariamente l’origine e l’etimologia. Lo usiamo così, d’istinto, perché fa parte del DNA comunicativo della nostra cultura, e ci si ferma lì. Come la usano gli altri, quella espressione la usiamo anche noi, al momento giusto, quando ci sta bene, e senza pensarci troppo.

Secondo alcuni, la frase idiomatica “costa a l’ha ij ciochin!” deriva dal fatto che in passato i doni più preziosi venivano incartati e rifiniti con nastri di raso, nei quali venivano inseriti alcuni piccoli sonagli. Un tocco di classe e di stile che dava risalto al pacchetto confezionato e  ne valorizzava il contenuto. Un pacco incartato con tanto di nastro e di ciochin era dunque garanzia di raffinatezza e di distinzione.

L’espressione nasce forse più probabilmente dalla natura gioiosa del suono dei campanelli, e dalla curiosità che il loro suono ci trasmette. Quando li sentiamo suonare è difficile non prestare orecchio al loro tintinnio, e quasi sempre ci prende la smania di sapere il perché e il per come si siano messi a scampanellare.

In effetti, i campanelli attraggono perché sono musica piacevole per le orecchie. Nel senso che uno scampanellio capta la nostra attenzione e quasi sempre ci mette allegria. Qualche volta, bisogna dire, il suono di un campanello ci può trasmettere, oltre che un’istintiva curiosità, anche un pizzico di allarme, come quando sentiamo inaspettatamente suonare il campanello di casa. Soprattutto se ciò accade in un’ora insolita: “Sarà il postino? Sarà arrivato l’olio Carli da Imperia? Chi è che rompe a quest’ora?”, e via di seguito con altri esempi di domande che possono tradire il nostro stupore o la nostra ansia.

In altri casi, invece, ne siamo felici, come quando siamo in attesa della visita di un amico, dei nostri nipoti, di un parente, eccetera.

A proposito di scampanellate: in piemontese esistono i ciochin (i campanelli), ma anche le ciochinere (ovvero le campanelliere, o pulsantiere). È molto importante distinguere campanelliera da campanelliera. Ci avete mai pensato? Le pulsantiere identificano il ceto sociale dei residenti di un edificio. C’è la campanelliera di ottone, tirata a lucido: quella dei palazzi eleganti, con i vari nomi dei residenti ben stampigliati e incisi sulle targhette, spesso identificati da semplici iniziali, per difendere la privacy. Ci sono poi le pulsantiere più modeste, murate a lato dei portoni delle case più popolari, con i nomi dei residenti sovrascritti a mano su strisce di carta appiccicate con lo scotch.

Ma la lingua piemontese propone anche un’altra ciochinera, che è uno strumento a percussione: un piccolo tamburello, con tanti campanelli tutt’intorno, spesso usato nelle bande musicali, ma anche nelle parate militari. Si sa: i campanelli si fanno sentire da lontano, ed è per questo che sono stati accolti anche nelle bande!

Campanelli, campanelliere, ma anche campane. La “ciòca dla grangia o dla cassin-a”, ad esempio, è la campana della grangia o della cascina, che però – attenzione! – è una campana metaforica. È quella che suona nella pancia dei montanari o dei contadini quando l’appetito si fa più incalzante, e scocca all’ora di pranzo.  Non c’è bisogno di guardare il campanile, perché, quando suona, si capisce che è arrivato il momento di mettere le gambe sotto il tavolo, o di fermarsi per mettere qualcosa sotto i denti.

“Sté an campan-a”, stare in campana, significa stare molto attenti, e tenersi pronti a qualsiasi evenienza, anche grave, e a cogliere e a distinguere già il primo di una serie di rintocchi a martello delle campane, che tradizionalmente rappresentavano il modo con cui si allertava la popolazione di un pericolo imminente.

E poi le ciochëtte: oltre ad essere delle piccole campane, le ciochëtte sono anche le campanule, quei bellissimi fiori blu a forma di calice di una pianta rampicante capace di attorcigliarsi attorno ai pali della luce, ai tronchi degli alberi, e ad intricarsi nelle reti di divisione quasi come l’edera.

Per finire, torniamo un attimo ai ciochin, cioè ai campanelli: se li legavano i piedi i monatti durante la peste manzoniana, per farsi sentire dalla gente. Quando se ne propagava il suono, tutti fuggivano di paura.

Molto meglio i jingle bells di Natale. A proposito, qualcuno sa come si dice jingle bells in piemontese?

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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