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A cena con i Re d’Italia: ecco come mangiavano i Savoia…

«Sua Maestà, che ha l’abitudine di non mangiare in pubblico, passeggiava con aria scontenta ed impaziente, senza gettare un’occhiata sul pasto preparato. Gli aiutanti di campo ed il seguito, schiavi dell’etichetta, restavano in piedi, gettando sguardi di cupidigia sulle vivande sdegnate dal loro signore. […] “Si parte, si parte!” Il Re vuole così!”, Infatti, Vittorio Emanuele, annoiandosi ad aspettare e preoccupandosi poco dell’appetito degli altri, aveva espresso con una tale energia il desiderio di riprendere il viaggio […]», così inizia il racconto di Henri d’Ideville, giovane diplomatico francese, dell’arrivo alla stazione di Rimini di Vittorio Emanuele II il 10 Novembre 1861, che ne “il Re, il Conte e la Rosina” annota con occhio attento e spirito indiscreto l’intimità di corte nel fatale biennio del 1859-1860. Se approcciato con criticità, il testo può essere un ottimo spunto per andare ad indagare gli ambienti più semplici e meno studiati della storia monarchica italiana, di cui la gastronomia ne è sicuramente un momento non di poco valore.

Henri d’Ideville

Vittorio Emanuele II, nonostante fosse un rinomato “buon gustaio”, non fu mai un amante dei pranzi ufficiali, sebbene questi fossero nella tradizione italiana ben più brevi dei lunghi e tediosi corrispettivi europei, e sappiamo addirittura che aveva una qual certa “difficoltà” nel destreggiarsi tra le mille posate e tovaglioli che il Galateo imponeva. Infatti, se spesso non toccava portata od addirittura, si dice, fosse in grado di addormentarsi nello sgomento dei commensali, non era raro che l’allora re interrompesse bruscamente la cerimonia, alzandosi (e facendo consequenzialmente alzare gli ospiti) da tavola prima dei consueti tempi.

Come ci racconta con malcelata ironia il nostro giovane diplomatico inglese, in quelle occasioni, il fuggi-fuggi ed il panico erano generali: «Il disordine fu al colmo. Gli invitati fiduciosi incominciavano già a soddisfare i primi morsi della fame quando risuonò il segnale di partenza che divenne subito quello del saccheggio. Cesti pieni di viveri, canestri di bottiglie di vino e di frutta, circolavano di mano in mano per andare ad ammucchiarsi nelle vetture. Tutti correvano inquieti e affamati, preoccupandosi soltanto di provvedersi di viveri; finalmente si risalì in treno. Nel momento in cui, già chiusi gli sportelli, il convoglio stava per partire, si videro uscire dalle cucine tre robusti lacchè gallonati, con la livrea rossa di casa reale. Uno di loro mentre correva, finiva di tracannare una bottiglia di spumante; gli altri con le tasche piene di selvaggina e di prosciutto, addentavano pezzi di carne. Era uno spettacolo vergognoso, tanto più sconveniente, il guanto di sua maestà dal finestrino della sua carrozza era testimone della condotta inqualificabile del suo personale».

Una serie di porcellane utilizzate da Savoia

Tante sono le leggende più o meno fondate che popolano l’immaginario collettivo sull’ormai antica cucina di corte: tra Vittorio Emanuele II e la sua passione per i cibi popolari tradizionali – si narra fosse un grande estimatore del Bollito ed avesse particolarmente a cuore anche la Fonduta e la Bagna Càoda -, fino alla regina Margherita che “mangia il pollo con le dita”, non è invece noto a tutti il gran da fare di argenterie, cuochi e manodopera che la tradizione imponeva attorno alle tavole dei re d’Italia. Per quanto è vero che la regina Elena cucinasse in privato per la propria famiglia, tanto che ancora oggi i nipoti ricordano i minestroni della nonna, mangiare nelle residenze reali voleva dire rispettare una rigidissima etichetta.

I pasti erano fondamentalmente di due tipi: ufficiali e privati. Se nei primi si poteva arrivare quasi a 180 ospiti, nei secondi i numeri erano decisamente più ridotti, con circa una decina di persone tra sovrani e membri scelti della corte, ma non erano sicuramente meno “impegnativi”. In entrambi i casi, però, di fronte al commensale veniva posto un menù, una novità che, si dice, fu introdotta dal cuoco Giovanni Vialardi, in cui si anticipava l’elenco delle portate e dei vini d’accompagnamento; tra questi, protagonisti indiscussi erano il Barolo ed i vini della zona del Chianti.

Scritto tradizionalmente in francese e decorato in modo più o meno elaborato a seconda dell’occasione, la lingua italiana arrivò ufficialmente nei menù di corte soltanto a partire dal 1907, anche in virtù del fatto che, non solo lingua di corte affianco al piemontese, la terminologia della cucina era all’epoca quella dei vicini francesi e sempre con il francese venivano nominati ingredienti, utensili ed i nomi stessi di numerose pietanze.

Mirco Spadaro

Mirco Spadaro

Classe '98, rivolese di nascita, frequenta il corso di Lettere Antiche a Torino, sotto il simbolo della città. Tra viaggi e libri, è innamorato della tecnologia e della scrittura e cerca, tra articoli e post su siti e giornali online, di congiungere queste due passioni, ora nella sua "carriera" come scrittore, ora con il "popolo di internet".

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