ENOGASTRONOMIA

Pelaverga delle colline saluzzesi, il vino che piaceva a papa Giulio II

SALUZZO. Meno rinomato del suo omonimo langarolo, il Pelaverga delle colline saluzzesi è un vitigno a bacca nera coltivato da secoli sulle alture circostanti l’antica capitale del marchesato e nelle terre limitrofe, strette tra la pianura rivestita di campi, pascoli e frutteti e i primi contrafforti alpini.

Gli esordi della sua coltivazione in zona si collegano ai concetti di viticoltura monastica e di viticoltura aristocratica, secondo gli studi condotti dallo storico francese Roger Dion che mise in luce il ruolo svolto dai signori ecclesiastici, vescovi e abati, e dai signori laici, come il duca di Borgogna e altre corti principesche europee, nel promuovere l’estensione della superficie vitata nell’Occidente medioevale.

La tradizione locale assegna infatti ai monaci dell’abbazia di Pagno, sita nell’appartata valle Bronda, il merito di aver introdotto nel Saluzzese la coltivazione del vitigno Pelaverga. L’espansione della viticoltura nell’Alto Medioevo venne favorita proprio dall’azione di monaci e chierici che, spinti da esigenze legate all’impiego del vino nella liturgia, impiantarono la vite in molte regioni d’Occidente dove in precedenza non era conosciuta. Qui, alle pendici delle Alpi, in una valletta riparata dai gelidi venti della montagna, furono i monaci di San Colombano ad avviare la coltivazione dell’uva Pelaverga che il conte Nuvolone Pergamo nel suo celebre studio ampelografico del 1798 menzionerà come varietà diffusa in tutta la valle Bronda.

La fondazione dell’abbazia di Pagno avvenne alla metà dell’VIII secolo per volontà del re longobardo Astolfo e per iniziativa di un gruppo di monaci provenienti dal monastero di San Colombano di Bobbio nel Piacentino. Assegnata nell’825 all’abbazia di Novalesa, di cui divenne priorato, subì le devastazioni saracene al principio del X secolo per poi venire riedificata nel 1040 per volere dell’arduinica Adelaide di Torino e conoscere un periodo di splendore che la proiettò nel novero delle fondazioni monastiche più prestigiose del Piemonte. Della struttura originaria, rimaneggiata nei secoli, rimangono tracce non corpose ma meritevoli d’una visita, come la cripta, la più antica delle tre cripte longobarde esistenti in provincia di Cuneo, gli affreschi del sottotetto risalenti all’XI/XII secolo e, murata in una cappella laterale, una lastra con iscrizioni di epoca longobarda nota come “iscrizione metrica di Regina”.  

Il secondo fattore che diede impulso alla viticoltura nel Saluzzese fu la presenza della corte marchionale, che non soltanto incentivò la produzione vinicola, con gli acquisti destinati alle cantine dei marchesi, ma contribuì a valorizzare la qualità, usando il vino come oggetto di scambio diplomatico.

Figura centrale nel decretare la fama del vino Pelaverga, con il suo caratteristico profumo di lampone, fu la nobildonna d’origine francese Marguerite de Foix de Candale, seconda moglie del marchese Ludovico II, che, in occasione del suo arrivo a Saluzzo, fece ampliare e rimodernare nell’ultimo decennio del XV secolo la Castiglia, residenza principale della corte che ancor oggi sovrasta il centro cittadino.

Alla morte del marito Margherita di Foix assunse la reggenza dello Stato, che esercitò dal 1504 al 1528, dimostrando notevoli doti di governante. Margherita visse l’apice dello splendore artistico e culturale del marchesato, che mostrava però, dal lato politico e militare, i segni premonitori del declino cui sarebbe andato incontro negli anni successivi alla sua morte, con la scomparsa dell’ultimo marchese, Gabriele, nel 1548 e la conseguente occupazione francese.

Nel quadro delle relazioni politiche intessute da Margherita rivestì un ruolo importante il vino Pelaverga: secondo la testimonianza di Giovanni Andrea Saluzzo signore di Castellar e Paesana, autore d’un diario, il Charneto, in cui descrive avvenimenti compresi tra il 1482 e il 1528, il profumato vino prodotto nella valle Bronda (…èl bon vin che j piasia a lo papa Julio) venne inviato dalla reggente del Marchesato (che egli, per disaccordi politici, giudicava con severità definendola “madama capricciosa e tiranna”) a Roma e l’allora pontefice, il combattivo Giulio II, al secolo il ligure Giuliano della Rovere, dimostrò a tal punto di apprezzarne le qualità da ordinare ogni anno una trantena di botalli de vino de Pagno e de Chastella (Castellar), destinandoli alle cantine papali. Sembra che il gradito omaggio, seguito da cospicui ordinativi, abbia aiutato Margherita nel persuadere papa Giulio II a concedere l’agognata cattedra episcopale alla città di Saluzzo, che dal 1511 divenne sede di diocesi.

I vigneti di Castellar con la veduta del Monviso

Un altro aneddoto che coinvolge il vitigno Pelaverga è legato alla figura del beato Sebastiano Valfrè, sacerdote nato nel 1629 a Verduno nelle Langhe che si distinse particolarmente alla corte dei Savoia, divenendo Confessore per il duca Vittorio Amedeo II e responsabile della formazione spirituale dei figli, e che si prodigò durante l’assedio di Torino del 1706 nell’opera di assistenza alla popolazione torinese sofferente (come curiosità ricordiamo che tra le numerose interpretazioni del motto dinastico FERT v’è anche quella, scherzosa, che ne attribuisce la paternità al Valfrè, il quale in confessione avrebbe ammonito il duca, colpevole di intrattenere relazioni extraconiugali, con le parole “Foemina erit ruina tua”, la donna sarà la tua rovina, dalle cui iniziali si forma l’acronimo FERT).

La voce popolare indicava il Valfrè come colui che introdusse nel primo Settecento sulle colline di Verduno nell’Albese, suo paese natale, un mazzo di barbatelle di Pelaverga di Saluzzo, da cui avrebbe tratto origine la rinomata produzione locale che oggi è classificata come Verduno Pelvarga o Verduno Doc. Recenti indagini ampelografiche hanno però sconfessato la tesi, appurando, aldilà dell’omonimia tra i vitigni, l’esistenza di notevoli differenze tra le due varietà, quella del Saluzzese, nota come Pelaverga grosso (affine per certe caratteristiche al Cari del Chierese), e l’altra, coltivata a Verduno, La Morra e Roddi, ribattezzata nei primi anni Novanta Pelaverga piccolo.

La Doc Colline Saluzzesi include non solo il Pelaverga, ma anche Barbera, Chatus e il raro Quagliano, proposto come vino da dessert e in versione spumante, ricavato dall’omonimo vitigno coltivato nella fascia pedemontana tra Costigliole Saluzzo e Busca attorno ai 500 metri d’altitudine. Già il conte Giuseppe di Rovasenda, nativo di Verzuolo, tra i massimi ampelografi di tutti i tempi, dedicò attenzione al Quagliano, detto anche Caian o Quajan, descrivendolo nel 1875 e caldeggiandone il consumo come uva da tavola per la serbevolezza degli acini, caratterizzati da buccia sottile e polpa dolce.  

Devastazioni di soldataglie francesi, avversità climatiche e il flagello della fillossera, oltre alla concorrenza dei frutteti, restrinsero la superficie vitata, condannando all’estinzione varietà minori, ma il Quagliano sopravvisse e in tempi recenti è stato rilanciato da una rete di piccoli produttori, che propongono un vino dal colore rosso-rosato, dolce, dalle note floreali (viola) e di frutti di bosco (lampone, fragolina). L’etimologia è incerta: come si legge sugli scritti di Ambrogio Chiotti c’è chi lo fa derivare da un vocabolo arabo importato ai tempi delle scorrerie saracene, chi dal piemontese cajà o quajà, cagliata, alludendo al tipo di vinificazione, chi infine dal francese quai-anus per le proprietà diuretiche che si riscontrano nell’uva e nel vino, poveri di sodio.

Paolo Barosso

Giornalista pubblicista, laureato in giurisprudenza, si occupa da anni di uffici stampa legati al settore culturale e all’ambito dell’enogastronomia. Collabora e ha collaborato, scrivendo di curiosità storiche e culturali legate al Piemonte, con testate e siti internet tra cui piemontenews.it, torinocuriosa.it e Il Torinese, oltre che con il mensile cartaceo “Panorami”. Sul blog kiteinnepal cura una rubrica dedicata al Piemonte che viene tradotta in lingua piemontese ed è tra i promotori del progetto piemonteis.org.

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