Lingua & tradizioni piemontesi

Negli anni della peste a Torino nacque l’esclamazione “contacc!”

Nonostante i drastici provvedimenti del duca Carlo Emanuele I per prevenire il diffondersi del contagio e l’eroica gestione dell’emergenza epidemica, coordinata dal medico di corte Giovanni Francesco Fiochetto e dal sindaco Gianfrancesco Bellezia, morirono 8.000 cittadini, su una popolazione di 25.000 abitanti

TORINO. Il 1630 a Torino iniziò nel modo più infausto. Il 2 di gennaio di quell’anno si registrò il primo caso di peste in città: se ne ammalò un calié, cioè un calzolaio, per aver maneggiato e riparato le suole delle scarpe di un suo cliente, che probabilmente aveva calpestato gli escrementi di un topo contenenti i germi del mortifero morbo.

La carestia nelle campagne del Piemonte imperversava già da un paio d’anni: per le reiterate avversità delle condizioni meteorologiche, le messi si erano fatte talmente scarse al punto che i prodotti agricoli avevano ormai raggiunto prezzi insostenibili. Molti contadini avevano abbandonato i loro campi, divenuti sterili e inariditi, riversandosi nella capitale, con la speranza (quasi sempre illusoria) di trovare un lavoro, ma molti di essi, senza una dimora e senza un reddito, finirono per mendicare il pane per le contrade torinesi. Il duca Carlo Emanuele I dovette intervenire, per la verità con parziale efficacia, a calmierare i listini delle derrate, ostacolare le speculazioni e impedire gli approvvigionamenti clandestini destinati alla borsa nera.

E poi la guerra per la conquista del Monferrato, che da troppo tempo stava minando non solo la sicurezza dei confini del ducato, ma aveva messo a dura prova anche l’erario, e stremato il piccolo, ma tenace e potente, stato sabaudo. Una epidemia di peste lo avrebbe messo definitivamente in ginocchio.

Ma il contagio, purtroppo, si estese. I torinesi lo chiamarono ël contacc. E “Contacc!” poteva essere un grido di disperazione per chi se ne scopriva vittima, oppure un disperato ed estremo avvertimento, un monito a un congiunto o un amico, perché si tenesse a distanza da un nuovo impestato.

Il trattato sul contagio che colpì Torino nel 1630 scritto dal medico G. Francesco Fiochetto

Allo scoppio dei primi casi di peste, le condizioni igieniche a Torino erano quelle che erano: spesso non si rispettavano neppure le più elementari cautele per tutelare la salute dei cittadini. La pestilenza si estese all’interno delle mura, ma – a causa del continuo transito di eserciti di ogni nazionalità – dilagava anche in altri territori dello stato, soprattutto nei grandi centri del cuneese, come Alba, Saluzzo e Savigliano, ed un focolaio s’era diffuso anche nel Pinerolese. Un editto del duca impose di chiudere tutte le porte della città: non vi si poteva più entrare. Tuttavia quel drastico provvedimento non impedì l’ulteriore diffusione dell’epidemia, che raggiunse il picco con la calura dei mesi estivi.

In questo difficile momento, che vide sommarsi gli effetti deleteri di una grave crisi economico-politico-militare a quelli di una virulenta pestilenza, spiccò in modo particolare – per dedizione e sacrificio – la generosa figura di un medico torinese, l’archiatra (cioè capo medico) di Casa Savoia Giovanni Francesco Fiochetto (Vigone, 1564 – Torino, 1642),che divenne per tutti il “medico della peste di Torino”. Fiochetto seppe dirimere le fasi più critiche di quella gravissima epidemia che colpì la popolazione torinese con una serie di efficaci provvedimenti di emergenza, che furono addirittura presi a modello per gestire successive crisi epidemiche in epoche successive.

Altra figura di spicco in questo funesto periodo della storia di Torino, fu quella del neoeletto sindaco Gianfrancesco Bellezia (Torino, 1602 | Torino, 1672) che volle rimanere stoicamente in città per tutto il periodo del contagio, senza mai abbandonarla, come invece avevano fatto molte altre figure istituzionali e la stessa Corte, che sfollò in quel di Cherasco. Bellezia affrontò coraggiosamente l’emergenza sanitaria cittadina, diventando il fulcro e il riferimento della gestione dell’epidemia e della relativa organizzazione sanitaria e logistica per farvi fronte.

La peste fu debellata solo nel tardo inverno del 1630, con il favore delle gelide temperature di quell’anno, anche se l’onda lunga del contagio continuò almeno fino ai primi mesi del 1631, per poi sfumare definitivamente. Su una popolazione di circa 25.000 abitanti, la pestilenza uccise ben 8.000 persone: praticamente una su quattro.

Il 7 aprile del 1631, la firma della Pace di Cherasco pose termine alla guerra per la Successione del Monferrato e di Mantova, nella quale era coinvolto il ducato sabaudo, con proprie rivendicazioni dinastiche. Così, anche dal punto di vista politico e militare, Torino conobbe un periodo di relativa serenità. Non a caso, a partire dagli ultimi mesi di quell’anno, i registri anagrafici della città tornarono a registrare un boom di nuove nascite: segno che i Torinesi avevano ritrovato la fiducia nella vita e nel loro futuro. Ma ci vollero decenni prima che la popolazione della città tornasse ai livelli che precedettero il contagio.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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