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Le merende dei bimbi Anni Cinquanta: pane, burro e zucchero, qualche volta i “fruttini”

I più gettonati erano anche pane cosparso d’olio e panini con il “Fontal”. Per i più fortunati, c’erano la Supercrema Ferrero, il Cremifrutto Althea o il Fruttino Zuegg, e i Wafer “Mignin”, antesignani degli snack di oggi

Nell’epoca degli snack chi si ricorda ancora di come facevano merenda i bambini degli Anni Cinquanta? Pochi, tranne forse solo coloro che appunto in quegli anni erano bambini. Le merende erano degli spuntini semplici, genuini, fatti in casa. C’era in effetti una certa varietà di proposte, ma molto dipendeva da quello che in quel momento era disponibile nella dispensa della mamma. Forse la più classica delle merende consisteva nel consumare un frutto: una mela, una pesca, qualche prugna, due o tre albicocche, una banana, qualche noce.  I frutti erano spesso accompagnati da un tocco di pane.  Classico l’adagio dell’epoca: “Pan e pom e fila a scòla!” .

Talvolta le mamme preparavano dei veloci panini (tagliando a metà una rosetta, una biovetta, un libretto, una piccola pasta dura) farcendoli (si fa per dire) con una sottile, smilza fettina di formaggio. Il formaggio più diffuso era la “fontina”, ma non quella d’Aosta, troppo costosa e irraggiungibile per la maggior parte delle famiglie di barriera: un ottimo, gustoso formaggio, peraltro, prodotto soprattutto nei caseifici del Novarese, ma che non essendo fontina autentica, veniva commercializzato con nomi alternativi di fantasia, che però all’originale facevano riferimento: Fontal, Fontitalia, Fontella, e così via.

Altro ripieno di formaggio poteva essere la fettina di “berna”. Così veniva chiamata la gruviera in Piemonte, il tipico formaggio svizzero coi buchi. Ma non era l’Hemmental originale elvetico, anch’esso troppo costoso  per le parsimoniose mamme di quartiere, sempre tiratissime e attente a sbarcare il lunario: era una “berna” di produzione italiana, con la crosta d’un rosso acceso e telata. Bisognava (a malincuore, perché la crosta si pagava allo stesso prezzo della polpa) tagliarla piuttosto spessa per scartare la parte più esterna del taglio, alquanto spugnoso e duro come una pietra.

Altre merende usuali erano la sòma d’aj (quella che oggi molti chiamano impropriamente bruschetta), di cui su questa testata già si è avuto occasione di parlare, che poi altro non era che una fetta di pane abbrustolito, o un “culetto” di una biova (dalla crosta ruvida e accidentata), su cui si sfregava uno spicchio d’aglio. La merenda veniva resa sapida da un pizzico di sale, con un filino (striminzito, sempre per motivi economici) d’olio d’oliva (quello extra vergine, a quei tempi, era ai più un illustre sconosciuto).

Un’altra merenda classica era il diffusissimo “pan, bur e sùcher” (pane, burro e zucchero): in genere si trattava di una mezza fetta di pane grosso (micone) su cui si spalmava un’oncia di burro (tanto per inumidire la mollica), Poi si spolverava il tutto con un paio di cucchiaini di zucchero (con lo zucchero, in genere, non si lesinava, perché il suo costo è sempre stato abbastanza abbordabile). Altro must dell’epoca era il mitico “pane e olio”: il solito parco filo d’olio d’oliva steso su una fetta di pane. Un cucchiaino, mica di più. Oppure l’olio fatto colare in un buco che la mamma scavava col dito indice nella mollica di una pagnottina spaccata a metà. Qualche genitore ci aggiungeva anche un pizzico di sale e due gocce di aceto. Era una variante più creativa (ma sempre gradita ai bambini). Più raramente, le mamme proponevano ai loro pargoli una fetta di “pane e marmellata” (i gusti delle confetture erano basici: pesca, albicocca e ciliegia): la marmellata era infatti considerata decisamente un lusso, almeno nelle famiglie di quartiere e di estrazione operaia.

Ma poi c’erano i giorni di festa, ed allora qualche uscita dal seminato era concessa anche ai ragazzini di periferia degli Anni Cinquanta. Ambitissima era, in queste rare occasioni solenni, la tartina con la Supercrema Ferrero (la nonna della Nutella). E che feste facevano i bambini per  un cubetto di cioccolato o per una piccola confezione di Cremifrutto Althea, o per un Fruttino Zuegg (squisite gelatine di marmellata solida: i gusti più ambiti erano all’amarena, alla pesca e, soprattutto, alla mela cotogna)! Festa grande anche per i wafer quadrati venduti in confezioni mono-dose (antesignani delle merendine di oggi), dal nome curioso: si chiamavano i “mignin”. Le mamme di ceto borghese le infilavano ogni giorno nelle cartelle dei loro figlioli che frequentavano i primi anni delle Scuole Elementari, per lo spuntino di metà mattinata. Forse il nome di quei wafer si era ispirato ad una cantilena fanciullesca, piuttosto conosciuta a quei tempi, che faceva più o meno così: “Prima mignin, seconda gatin, tersa gatassa, quarta ramassa, quinta scopassa”.

C’era poi una merenda coi fiocchi, riservata anch’essa alle occasioni davvero speciali, come i compleanni, le ricorrenze, i festeggiamenti straordinari: erano le “pesche” (prodotto da forno) fatte con una pasta simile a quella della focaccia di Susa o delle brioches. Si vendevano nelle panetterie. Erano composte da due mezze focaccine semisferiche,  che sovrapposte tra loro assumevano la forma di una pesca vera. In mezzo alle due sezioni, un goloso ripieno di marmellata alla pesca.  La parte esterna, inumidita di alchermes ed aspersa di zucchero, dava al dolce un aspetto molto simile al colore della buccia delle pesche vere. Ma nell’arco di un’intera fanciullezza, le occasioni in cui i bambini se ne potevano deliziare, si contavano davvero sulle dita.

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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