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Solidarietà e pettegolezzi nelle vecchie case di ringhiera dei quartieri operai torinesi

Ricordando i tempi in cui le massaie uscivano sul ballatoio del cortile per gridare: “Acqua! Acqua! Acqua!”…

Nei “ruggenti” Anni Sessanta io ero ancora un ragazzino, ma ricordo benissimo che nelle case di quartiere, e in particolare in quelle di ringhiera, quando più utenti residenti nello stesso palazzo, ma anche nello stesso isolato, aprivano contemporaneamente il rubinetto (e ciò succedeva soprattutto nelle ore di punta, come nell’immediato dopo pranzo, quando le massaie si accingevano a lavare le stoviglie utilizzate durante il pranzo nell’acquaio di casa), capitava spesso che dai rubinetti dei lavandini dei piani più alti l’acqua dell’acquedotto municipale uscisse con il contagocce. Un filo d’acqua decisamente insufficiente a compiere il lavaggio e il risciacquo adeguato di piatti, scodelle e casseruole.

Allora, le massaie (così venivano chiamate a quei tempi le casalinghe) dei piani superiori uscivano sul ballatoio del cortile e gridavano: “Acqua! Acqua! Acqua!”.

Quell’invocazione, scandita ad alta voce, non era un grido di aiuto per un incendio improvvisamente divampato in cucina. Era il segnale che l’acqua non affluiva al loro lavandino di casa, o perlomeno, affluiva in modo insufficiente. Un tam tam efficace, un SOS in codice, che si trasmetteva da balcone a balcone.

E così, con grande civismo, captato l’SOS, le massaie dei piani inferiori si affrettavano a ultimare o a interrompere il lavaggio delle loro stoviglie, per permettere anche a quelle che abitavano sopra di loro di compiere o ultimare, a loro volta, l’analogo quotidiano servizio domestico.

Un gesto di bon ton e di cortesia, all’insegna di quella collaborazione e solidarietà che legava non solo le famiglie che abitavano nello stesso palazzo, ma tutti coloro che risiedevano nello stesso isolato e nello stesso quartiere.

I balconi delle case di ringhiera, da fine Ottocento ai primi Anni Sessanta del Novecento costituivano una sorta di palcoscenico di uno stile di vita operaio, essenziale e spartano. Ci si affacciava alla ringhiera, si chiacchierava da un balcone all’altro, si stendevano i panni: dai ballatoi si spandevano i profumi delle cucine, lasciando intendere ai vicini, piano per piano, qual era il menù della giornata (minestrone di verdura, frittata, pasta e fagioli, ecc.). Certo la privacy non era affatto rispettata poiché in ogni caseggiato tutti si conoscevano. Tutti si chiamavano per nome, e ognuno sapeva tutto di tutti. Questo limite, che oggi giudicheremmo insopportabile, era ampiamente compensato da una schietta solidarietà tra i residenti, che contrasta e stride con l’eccessiva riservatezza (che spesso sconfina nell’indifferenza) tra i condòmini dei palazzi contemporanei, dove in molti casi resta sconosciuto persino il nome dei dirimpettai che condividono lo stesso pianerottolo.

Sui balconi si affacciavano gli ingressi di tre, quattro, anche cinque piccoli appartamenti, spesso composti da una sola camera e cucina, oppure da una monocamera con una parete divisoria di legno, per separare la zona notte dalla cucina (che era al tempo stesso desco, soggiorno e salotto). Altro che cabine-armadio, ripostiglio e angolo cottura! Un solo lavello, nessun impianto di riscaldamento centralizzato: i residenti si riscaldavano con il potagé. E d’estate, porte e finestre spalancate. Accanto al lavandino, appoggiato su due staffe in ferro, era murato un piano in marmo bianco, su cui era posizionato il fornello a gas, per poter cucinare i pasti quotidiani. Al servizio di ogni piano, alle due estremità del ballatoio, c’erano i gabinetti alla turca: poco più di un paio di metri quadri, cui si accedeva attraverso una porta di legno, nella parte superiore della quale erano presenti delle fenditure per consentire un minimo di aerazione e la fuga (si fa per dire) dei cattivi odori.

Se da un lato la promiscuità talora diventava imbarazzante, e costituiva un limite alla riservatezza personale e familiare, quello stile di vita promiscuo – come già si è detto – favoriva al tempo stesso la solidarietà, la condivisione, l’accoglienza, l’ascolto e l’amicizia tra i residenti. D’altro canto, quel modo di vivere spartano, improntato all’essenzialità, consolidava gioco forza il senso del risparmio e il valore del sacrificio. E persino il senso della convivialità, oltre che quello dello humor e il piacere malizioso del pettegolezzo, come lasciano intendere le parole di un vecchio adagio popolare ispirato proprio allo stile di vita novecentesco nelle case torinesi di ringhiera:

Madama Gabian ch’a stà al prim pian, / a ciapava le pùles con le man. / Madama Gatija, ch’a la vodìa / a-j ciapava con le dìa. / Madama Capëtta ch’a sta ‘nt na sofia / ‘d canté la Violeta mai a së stofia…

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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